Il sufismo e i dervisci

Il sufismo e i dervisci

Queste pagine nascono dalla fascinazione per un Paese misterioso e mistico (la Turchia) e per una specifica forma di spiritualità e misticismo, il Sufismo, che nella sua espressione più nota, i Dervisci, tanto ha dato alla cultura, alla musica e all'arte in genere.
Il sufismo non è una specificità turca, semmai è uno dei pilastri fondanti dell'Islam nel suo insieme, ma in Turchia ha prodotto frutti abbastanza atipici e, contemporaneamente, si trova a fare da contraltare a una endogena propensione laica del Paese.
Da un punto di vista etnografico i turchi non sono assimilabili alle popolazioni mediorientali, pro- venendo invece dalle steppe siberiane e/o mongole. Dal punto di vista culturale la lunga coabitazione con gli arabi ha reso la Turchia un Paese a forte predominanza islamica.

 


Tuttavia -e a margine-, la Turchia nel suo insieme presenta almeno un importante aspetto di interesse Massonico (a differenza di molti altri Paesi islamici): Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna, era Massone (della loggia di Salonicco) e Massoni erano i Giovani Turchi, attuatori della rivoluzione del 1909. Oggi la Massoneria turca, soprattutto attraverso le Logge Militari. è probabilmente uno dei "segreti motori" (forse il più importante) che sospingono il Paese verso scelte laiche, democratiche, europee, di contro alle pulsioni islamiste prevenienti dai confini orientali. All'interno di questa “lotta”, mi pareva particolarmente interessante un seppure conciso studio sul volto in assoluto meno laico dell'Islam.
Nel mondo arabo, e nella diffusione dell'Islam, un posto di tutto rilievo spetta alle Confraternite (turuq).
A partire da XII secolo i sufi (corrente mistica e ascetica dell'Islam) superarono la vocazione individuale e spontanea e si aggregarono appunto in Confraternite. Sia pure con molti distinguo, le Confraternite sopperiscono alla mancanza di un clero formale islamico e svolgono quindi un ruolo di intermediazione col divino, traendo la propria autorevolezza da una lunga catena di trasmissione "di saggezza" che conduce fino all'ultimo Profeta, Maometto.
Ma cos'è il sufismo?
In parole semplici, è una forma iniziatica e mistica tipica della cultura islamica.
Probabilmente il sufismo accoglie in sé tratti precedenti all'Islam ma il corpus più sostanzioso del pensiero e dell'etica sufi sono riconducibili direttamente alle parole di Maometto.
L'etimologia non aiuta: esiste una scuola di pensiero che fa derivare la parola "sufi" da " tasāwwuf" (lana) per via dei miseri indumenti di lana grezza indossati dai primi mistici; ma ne esiste un'altra che riconduce a "suffa" (portico) riferendosi al portico antistante la casa-moschea di Maometto a Medina dove il Profeta accoglieva i mistici, parlando loro e con essi discutendo.
Storicamente, intorno ai più venerati maestri sufi si formarono delle scuole iniziatiche dette, appunto, "tariqa" (al plurale “turuq”) o, meno conosciuto, "tawa'il". Il maestro era detto semplicemente "anziano" o "nonno".
Come accennavo già prima, intorno al XII secolo all'aggregazione spontanea di discepoli intorno a un saggio si andò sostituendo una struttura più rigorosa, fino alla costituzione di Confraternite, ciascuna delle quali trae il nome dal fondatore e dispone, come negli ordini monastici occidentali, di una regola che stabilisce ritualità e comportamenti per i propri aderenti, organizzati in un sistema gerarchico piramidale.
Ritengo particolarmente importante evidenziare ancora la funzione precipua delle Confraternite: una religione che non prevede un clero istituzionale e istituzionalizzato in grado di mediare, per propria natura e costituzione, i rapporti del "mondo temporale" con il divino ha necessità, quasi assoluta, di costruire una differente scala gerarchica e di autorevolezza. I Maestri sufi sono portatori della "báraka", ovvero la benedizione, di Maometto e la tramandano attraverso benedizioni successive. In questo modo, il più giovane dei Maestri diviene fonte di dottrina e di benedizione, nonché portatore di pietas, nobiltà d'animo e profonda conoscenza, andando così a costituire un caposaldo di dottrina e di etica.
La parola "sufismo" venne coniata nel 1821 dal tedesco F.A. Tholuck nella forma latina "Sufismus" come traduzione della parola araba "taṣawwuf" con il significato di "teologia spirituale", ovvero somma di ascetica e mistica.
"Ascetica" nel senso di "complesso di pratiche devote, non estensibili alla maggioranza dei fedeli, le quali, attraverso una serie ordinata e perseverante di preghiere, di rinunzie e di atti, mirano al distacco completo dalle passioni terrene, all'espiazione eventuale di colpe proprie o altrui e alla perfezione spirituale in senso religioso".
"Mistica" per designare il complesso degli stati straordinari (soprannaturali) d'orazione, che nel loro grado massimo portano a cognizioni religiose superiori, alla conoscenza intuitiva di Dio, all'unione dell'anima con Lui in questa vita, e che, a differenza dalle perfezioni ascetiche, non si considerano raggiungibili per effetto degli sforzi e dei meriti del credente, ma soltanto quali grazie straordinarie di Dio.
Per il sufi, ascetica e mistica sono le due parti di un unico cammino. Chi percorre questo cammino passa per tre stadi:
• lo stadio di "aspirante";
• lo stadio di "progrediente";
• lo stadio di "arrivato" o "perfetto".

 

Il cammino va percorso in tappe successive e propedeutiche. I vari autori indicano numeri variabili di tappe. Nella classificazione di as-Sarrāǵ (morto all'incirca nel 988) sono sette:
1. pentimento d'ogni anche minima colpa;
2. scrupolosa delicatezza di coscienza, molto superiore a quella dell'uomo ordinario, quindi astensione da quanto possa lasciar nascere un sospetto di scorrettezza;
3. rinunzia assoluta ai beni del mondo anche se leciti senza dubbio;
4. povertà (c'è questione se la mendicità sia lecita quale atto di umiliazione);
5. sopportazione rassegnata d'ogni avversità;
6. affidamento di sé stesso a Dio, eliminando ogni preoccupazione;
7. riḍā, ossia stato perenne di soddisfazione per quanto avvenga di bene o di male all'asceta.

Al di là di questi aspetti sistemici e filosofici, il sufismo è stata in buona parte la punta di diamante intellettuale del mondo islamico, scontrandosi sovente con l'autorità dei dottori della legge, soprattutto laddove il sufi riflette e si interroga sul senso recondito delle prescrizioni e dei dettami della fede, di contro a una accettazione formale e sclerotizzata.
È suggestivo rilevare che il sufismo ha sempre (o quasi sempre) rappresentato l'Islam più aperto e moderato, come se la ricerca del bello e del buono (esiste una estetica e un'etica, forte, sufi) portasse con sé un approccio più benevolo e tollerante nei confronti delle umane miserie.
Nonostante queste specificità e queste premesse, il sufismo non è mai entrato in conflitto con la sharia.
Invece, con altri motivi, questo ha portato a un "riservatezza" che rende poco visibili le turuq e piuttosto sotterraneo il loro operare.
Fra le confraternite più visibili e anche per questo più note, abbiamo la tariqa della Mawlawiyya, presente soprattutto in Persia e in Turchia (in turco questa tariqa si chiama Mevleviyya), fondata a Konya (Turchia) dal grande sufi Jalàl al-Din Rumi nel XIII secolo.
Uno dei motivi per cui questa taraqi è particolarmente nota è la “danza dell'estasi” o “danza dei dervisci rotanti”, spesso ormai ridotta a spettacolo per turisti.
Tuttavia, l'esecuzione rituale della danza dell'estasi (Semà in turco) non avviene mai in pubblico ed è l'unica completa. Soggetta a regole e rituali rigorosi, mescola la musica e la corporalità con tratti esoterici e iniziatici: i gesti (spesso minimi se non impercettibili) dei danzatori e del Maestro posso- no essere colti e letti solo da certi livelli di conoscenza.
L'esecuzione completa del Semà avviene a Konya la seconda settimana di dicembre. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l'espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero.
I dervisci sono vestiti di bianco con un mantello nero: nessun altro colore è ammesso. Su un lato ci sono i musici e i cantanti, sull'altro il Maestro e il capo dei danzatori. Tutti sono rigorosamente maschi. Nel rito completo i danzatori sono 18. La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un nait (inno di lode al Profeta) o con la recita- zione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano.
Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di ney. Un suono di tamburi - seconda fase - simbolizza la creazione del mondo; e poi - terza fase – ancora la melodia di un ney, che col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.
Gli strumenti musicali tradizionalmente coinvolti sono il ney (un flauto verticale dalle valenze mistiche in Turchia), dei kudum (piccoli timpani di cuoio ricoperti di pelli di capra) e degli halile (piatti in rame).
Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall'orchestra inizia a cantarlo, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori e i danzatori, coperti (come già detto) da un mantello nero, simbolo dell'ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall'ego.
Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso.
I dervisci hanno un alto cappello simile a un fez, di colore ocra, che simboleggia la loro pietra tombale: a passi lenti, percorrono in senso antiorario tutto il perimetro per tre volte.
Il perimetro rappresenta il circolo del Sultano Veled e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn (conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza).
I danzatori si fermano su un lato lungo del perimetro e si scambiano i saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell'alef, prima lettera dell'alfabeto arabo ed ebraico) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle.
Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette "saluti" (salâm). A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e - dopo aver allargato le braccia - sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un’ampia vorticosa immagine dell’Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro “saluti”, interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell’ultimo “saluto”, il Maestro stesso, "polo celeste" (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.
Il primo "saluto" simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio. Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d'una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l’estasi ed il superamento d'ogni transitorietà fenomenica. Il quarto "saluto" simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, “morto prima di morire”, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.
La fase finale è agita dai musici e dai cantori che recitano versetti del Corano e che si conclude con: “Hu diyelim (Noi Lo vediamo).” Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo “Dio” quasi a significare il superamento d’ogni descrizione possibile della divinità da parte dell’essere umano.
Lo scopo è di raggiungere l'estasi, attraverso la danza circolare e la musica anch'essa dai ritmi fortemente circolari. Quando i danzatori raggiungono questo stato, la musica si tace ed essi continuano a vorticare in silenzio.
Il suono di un singolo flauto li riporta lentamente alle realtà. Leggenda vuole che quando un derviscio raggiunge l'estasi i suoi piedi non tocchino più la terra.
Nel semà si elaborano tutte le sette tappe cui accennavo sopra, attraverso l'uso di sette simboli la cui compenetrazione aiuta il cammino: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia. Nel semà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli.
È a mio parere importante cogliere alcuni aspetti pratici della danza derviscia.
In primo luogo, i dervisci si sottopongono a un lungo (1001 giorni) allenamento fisico e spirituale. Durante questo allenamento, non diversamente da qualsiasi ballerino professionista o pugile, praticano intensi esercizi fisici: esistono strumenti simili a quelli delle palestre, che vengono usati per l'allenamento. Si impara principalmente il controllo del corpo, anche attraverso lunghe sessioni di immobilità.
Da questo discende un approccio che è sì mistico e ascetico, ma al contempo anche “tecnico” e pratico. In altre parole, l'estasi viene raggiunta attraverso specifiche tecniche distillate nei secoli, associata a una musica ipnotica.
Non è escluso che venga specificamente stimolata la produzione di particolari endorfine.
Non si può poi non notare, dalla descrizione dei paragrafi precedenti, il rigore della ritualità della danza: al contrario di altre danze rituali, di taglio più individualistico, la danza derviscia sottostà a regole rigide e canonizzate in cui ogni gesto, anche e soprattutto i più minimi, hanno un significato per il “progrediente” o per il “perfetto”.
Allo stesso modo, è importante notare (vale per tutte le Confraternite) il rimando dottrinale e rituale a una tradizione che rimanda all'origine stessa dell'Islam, ovvero al Profeta. È da questa tradizione che nasce e deriva l'autorità. Proprio in questa ottica, non ci si può “lasciar prendere” completamente dagli aspetti formali e rituali e ignorare il peso religioso delle Confraternite.

Ci sono ancora due aspetti che meriterebbero un trattamento a parte e a cui vorrei comunque qui accennare.
Nell'Islam è sconosciuto o quasi il concetto di eresia. Il pensiero islamico è sempre stato, ed è adesso, organico. Non nasce dallo scontro dialettico ma semmai dalla rielaborazione dialettica. Le confraternite non fanno eccezione. A questo proposito, anche le Confraternite più aperte e tolleranti mai sono entrate in conflitto con la sharia, la legge islamica.
Le Confraternite rappresentano un forte strumento di aggregazione e di socialità. Edward Banfield nel suo “Le basi morali di una società arretrata” identifica proprio nella mancanza di aggregazioni solidali fra non consanguinei le “basi di una società arretrata” e nella loro presenza, presumibilmente, le possibilità di sviluppo e crescita sociale, culturale ed economica. In questo senso, si può sostenere il ruolo “evolutivo” che le Confraternite hanno avuto nello sviluppo e nella diffusione dell'Islam. E al contempo si possono identificarne i limiti nel raffronto con altre culture e religiosità, primo fra tutti anche un probabile ruolo “frenante”.

F. A. 

Delta on-line

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