L’autore de Le mie prigioni ha avuto la singolare sorte di essere considerato un liberale impenitente dal reazionario conte Monaldo Leopardi (padre del più celebre Giacomo) e di passare per bigotto reazionario agli occhi di quanti, senza leggerne le opere o comunque senza comprenderle, si fermarono alla superficie, ciò al suo quieto crepuscolo di Casa Barolo, a Torino.
Eppure Pellico meritava e merita un’attenzione almeno proporzionale all’autorevolezza della sua figura di ispiratore del movimento romantico europeo. Non a caso le sue furono le opere più tradotte all’estero dopo quelle di Manzoni. E quando parliamo di opere, ci riferiamo essenzialmente alle memorie carcerarie (1832) e a Dei doveri degli uomini, del 1834.
Lette essenzialmente come documento storico, utile per la lotta contro il dominio asburgico o, poi, quale libro di edificazione morale, Le mie prigioni sono, a ben intenderle, il più straordinario libro iniziatico della letteratura italiana dell’Ottocento, che – sappiamo bene – in quel settore non fu così prolifica. Ma soffermiamoci un istante sui gli aspetti fondamentali dell’opera: un proemio e 99 capitoli, cioè una struttura del tutto simile alla Commedia dantesca. Segue un ritmo appena trasparente e, tuttavia, molto allusivo; tre carceri (Santa Margherita a Milano, i Piombi a Venezia e lo Spielberg), tre celle per ciascun carcere, tre “personaggi” eminenti per ciascun “transito”. E poi, soprattutto, le prove: dell’acqua, del fuoco, della memoria, attraverso le quali Pellico si ricongiunse, purificato, alla compagnia dei “concaptivi” che ne dividevano la sorte. In breve, ci troviamo dinanzi a un capolavoro iniziatico, la cui chiave è sfuggita alla generalità dei critici proprio per la perdurante e diffusa carenza di cifrari e di attenzione nei riguardi del modulo intellettuale al quale invece si rifà l’autore.
Egli, d’altronde, entrò nella Carboneria perché al suo tempo la Massoneria in Italia era affatto spenta e inoperosa. Ebbe, sì, accanto un massone autorevole – Federico Confalonieri, iniziato a Londra dal Duca di Sussex nel settembre del 1818, proprio mentre a Milano cominciava a uscire Il conciliatore – ma è dubbio che Pellico abbia cognizione del massonismo dell’illustre patrizio ambrosiano. Si buttò invece a capofitto nella trama carbonara allestita da Piero Maroncelli e vi trovò (e a sua volta vi attrasse) alcune fra le più insigni personalità del tempo.
Lo scrittore saluzzese, già famoso grazie al grande successo della Francesca da Rimini e in quegli anni indulgente a un certo libertinismo intellettuale, andava alla ricerca di ritualità, di una unione fraterna più intima e calda di quella assicuratagli dal fratello di sangue, Francesco, che vestì l’abito talare e s’avviò a divenire uno dei più influenti pensatori della Compagnia di Gesù.
La sua fu dunque vicenda parallela a quella di molti altri romantici in ogni Paese d’Europa e dell’America meridionale, i quali seppero pensare per categorie universali in un periodo nel quale, invece, l’avvento delle nazioni avrebbe altrimenti condotto al nazionalismo esacerbato.
Benché brevissima (dall’estate 1820 alla “conversione” sotto l’incalzare degli interrogatori cui fu sottoposto dall’inquirente Antonio Salvotti, quondam massone), l’esperienza carbonara segnò definitivamente l’abito morale di Silvio Pellico, facendone quel campione di tolleranza, di superiore visione del mondo e degli uomini che poi si consegnò ai Doveri degli uomini: un’opera in un proemio e 32 capitoli, quasi una scala iniziatica, lungo la quale l’interlocutore immaginario dello scrittore è condotto dall’acerba adolescenza a divenire vero uomo e buon cittadino. Questa parola conclusiva dell’opera ci conferma che, tramite l’iniziazione carbonara, Pellico era passato definitivamente attraverso la rivoluzione, aveva percepito la necessità irrinunciabile di conciliare la personalità individuale con quella collettiva dello Stato.
Quel “cugino”, se anche non l’ebbe tra le mani, assorbì insomma appieno i cardini delle costituzioni massoniche. Riesaminarne figura e opere potrà concorrere a far luce su quel mezzo secolo di storia d’Italia durante il quale si direbbe che la Vera Luce sia rimasta spenta o ridotta a fievole lumicino. Fu del resto l’età durante la quale moltissimi italiani entrarono in Massoneria, seppur nell’esilio: dalle Americhe alla Francia, ma anche Spagna e Portogallo. Una vicenda, quest’ultima, che ritorna anche in alcuni tra i molti saggi raccolti nei due poderosi volumi (oltre 1.250 pagine complessive) degli Atti del III Symposium di storia e metodologia applicata alla Massoneria, tenuto a Còrdoba (Spagna) nel giugno 1987 e da poco editi a Saragozza dal Centro di Studi Storici della Massoneria in Spagna (CEHME).
Proprio a Saluzzo, nel 1990, si è tenuto un convegno in cui il Presidente del CEHME, Josè A. Ferrer Benimeli, ha presentato una relazione sul tema; al medesimo incontro, a conferma dell’ormai stretta cooperazione internazionale tra i centri che concorrono a documentare e divulgare la verità storica sulle massonerie nel mondo, ha partecipato l’Istituto di Studi e Ricerche Massoniche di rue Cadet, Parigi (IDERM).
Su questa linea si colloca il catalogo della mostra La Masonerìa española, 1728-1939, presentata ad Alicante nel settembre del 1989, con il contributo dell’Istituto di Cultura Juan Gil Albert, diretto dal Prof. Emilio La Parra dell’Assessorato per la Cultura, l’Educazione e la Scienza della Generalitat Valenciana: un modello di convergenza tra studiosi e Pubblica amministrazione che tanto ci dice quanto siano lontani i pur recenti tempi bui della persecuzione franchista, e che pure si impone in Italia, dove l’antimassonismo di Stato ufficialmente è cosa morta e sepolta, ma l’ostilità nei confronti dei massoni e di quanti ne coltivano la storia continua a vigoreggiare, anche nella forma dell’oblio di figure che – è il caso di Silvio Pellico – hanno onorato la vita delle “sette”.
Per questo e per molti altri motivi, oggi più che mai, giova riproporre le sue opere sotto la loro vera luce.