Le meraviglie di Torino da dove cominciano? Dalla bellezza architettonica dei suoi palazzi, chiese, monumenti … dalla grandiosità dei suoi viali, delle piazze, della collina o dei monti che le fanno da sfondo? O iniziamo il nostro discorso parlando della sua importanza storica che la vede prima capitale del Regno d’Italia? Perché non ci concentriamo, invece, sul suo aspetto magico-esoterico molto caro ai torinesi e che tanto incuriosisce chi di Torino non è? E ancora: perché questo nome “Torino” e come e quando il toro è divenuto l’emblema della città?
Nonostante tutte queste domande, ci limiteremo a fornire degli spunti di riflessione tentando di stimolare la curiosità di chi legge perché questa è Torino, un’incessante fonte di interesse che potremmo paragonare a una matrioska, per la sua capacità di svelarsi e sorprendere.
Le molte storie legate alle sue origini si intrecciano con miti, leggende, contribuendo a rendere Torino “città magica” per eccellenza.
Tale reputazione si è arricchita costantemente fin da tempi remoti, ancor prima della nascita di Augusta Taurinorum; infatti il territorio compreso fra i quattro fiumi (Po, Sangone, Dora Riparia e Stura) era considerato sacro dai Taurini o Taurisci , che lo avevano eletto a luogo di culto, in particolare il territorio che venne consacrato fu quello vicino alla confluenza fra la Dora Riparia ed il Po, fatto di cui in seguito approfittarono i Romani, i quali decisero di fondare il proprio castrum in quell’area, certi che i Taurini non li avrebbero mai attaccati, per timore di dissacrare un luogo dedicato agli dei.
Alcuni miti, poi, coinvolgono tra gli aneddoti legati alla fondazione della città anche gli Egizi (anche per questo, pare, i governanti sabaudi sono sempre stati attratti dagli studi sull’Antico Egitto).
La prima leggenda riguarda il principe Eridano. Fratello di Osiride, appena sbarcato sulla costa ligure alla ricerca di nuove terre su cui regnare, si è inoltrato oltre l’Appennino per fermarsi in un luogo dove un grande fiume gli ricordasse il Nilo, ove potesse fondare una colonia egizia; egli lo trovò e impose ai locali il culto del dio Api, raffigurato nel toro sacro venerato a Menfi (lo stesso nome dell’Appennino trova la propria etimologia nel nome del dio).
Eridano morì annegato nel fiume, mentre partecipava ad una corsa di quadrighe e da quel giorno il corso d’acqua prese il suo nome; furono poi i Celti a chiamarlo Padam per il gran numero di pioppi che crescevano lungo le sue rive, abbreviato in seguito in Po.
La seconda leggenda, invece, viene ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio e ha come protagonista Fetonte, figlio di Elios, il Sole, e di Climene, figlia di Oceano, il quale riuscì ad impadronirsi del carro paterno; egli aveva però appreso dal padre solo pochi rudimenti per governare i dodici scintillanti destrieri legati al carro, che presto presero il sopravvento sull’inesperto auriga, portando il carro fuori dalla sua solita traiettoria, causando immani disastri sulla terra: siccità, incendi ed inondazioni.
Zeus se ne avvide e lanciò una folgore su Fetonte, che, colpito, precipitò nel fiume sottostante, l’Eridano. Sulle sue sponde giunsero la madre e le sorelle, le tre Eliadi, che mostrarono tutto il proprio dolore. Impietosito, Zeus le tramutò in pioppi (l’ondeggiare di tali alberi al vento ricorderebbe le quattro donne piangenti che dondolavano per dimostrare la propria pena), mentre Elios riprese prontamente il controllo del carro.
Come accennato in precedenza, tali leggende trovano qualche riscontro nella realtà grazie a dei ritrovamenti effettuati nel territorio piemontese, in particolar modo reperti di chiara origine egizia e mummie di animali. La maggior concentrazione di reperti emerge nella zona di Monteu da Po, poco dopo Castagneto Po, dove si ritiene si fosse insediata la colonia, ma alcuni animali mummificati di piccole dimensioni sono stati ritrovati nell’area circostante la Gran Madre di Dio e sarebbero antecedenti alla realizzazione del Tempio dedicato ad Iside su cui fu poi edificata la chiesa, dimostrando così che vi erano già realtà egizie prima del culto importato dai Romani.
Secondo Emanuele Thesauro, storico al servizio della Madama Reale Maria Cristina, Fetonte non era altro che un principe egizio giunto attorno al 1500 a.C. nel territorio torinese insieme ad un nutrito gruppo di seguaci, con lo scopo di trovare nuovi lidi e nuove terre. Egli partì dall’Egitto sotto il regno di Amenophi III per alcuni dissidi sorti con la casta sacerdotale , dal momento che egli sosteneva il culto enoteista del dio Aton, contro invece i sacerdoti di Amon , la cui casta era la più potente all’epoca.
Un altro elemento che lega Torino con l’Egitto è la figura di Iside, moglie di Osiride e madre di Horus. Pare infatti che una delle più importanti chiese del capoluogo piemontese, la Gran Madre di Dio, posta al fondo di via Po al di là dell’omonimo fiume, sorga sullo stesso luogo in cui un tempo sembra vi fosse un tempio dedicato ad Iside, a sua volta costruito sulle rovine di un altro tempio dedicato a Gaia e opera dei Taurini, i cui sacerdoti, i Druidi, veneravano la natura, i boschi e la Madre Terra: culto della Grande Madre Universale simbolicamente legato all’acqua.
La chiesa fu costruita da Federico Bonsignore e inaugurata nel 1831 per festeggiare il ritorno di Vittorio Emanuele I, esiliato dopo la sconfitta di Napoleone; è considerata uno dei vertici del famoso triangolo della magia bianca nella città.
A causa della grande diffusione del culto di Iside, venne eretto un altro tempio dedicato alla dea, nella zona in cui oggi si trova il mastio della Cittadella. Avventore, primo vescovo di Torino, nel 465 d.C. celebrò proprio in quel luogo una santa messa per sconsacrare l’altare pagano e cristianizzare l’area.
Come ci ricorda Fulcanelli , in tempi antichi erano numerose le Vergini Nere che venivano appellate Matri Deum Magnae (Gran Madre di Dio) e la loro venerazione è da ricercarsi in un’usanza antecedente il cristianesimo che si ricollega appunto al culto di Iside.
L’ubicazione della Gran Madre di Dio (in riva al fiume, laddove da sempre vi era il punto di attraversamento) sembrerebbe indicare la tradizione che associa il culto pagano della Grande Madre con quello cristiano della Madonna madre di Dio. La Grande Madre nera era la deità terrestre primigenia legata alla fertilità e il suo simbolo era principalmente legato all’antico segno del Toro, che rappresenta la forza fecondativa della natura. Sin dai tempi dell’antico Egitto, la fertilità era associata con l’immagine della terra nera, il limo scuro che il Nilo lasciava dopo le periodiche inondazioni rendendo fecondo il terreno. Il nome di questo limo era “kemya” e dalla locuzione araba “al-kemya” è nato il termine alchimia.
Ma un’altra chiesa torinese ci riporta ad Iside: Santa Maria della Consolazione meglio conosciuta come “La Consolata”. All’interno del tempio, perso e ritrovato più volte, troneggia un quadro che ritrae la Vergine col Bambinello risalente all’anno 1000. L’immagine non presenta le fattezze cui l’iconografia mariana ci ha abituati, ma ha pelle olivastra e vesti scure, tanto da lasciare aperta l’ipotesi che non si tratti di Maria di Nazareth, ma di Iside che tiene in braccio Horus. Inoltre il nome stesso di questa chiesa parrebbe suggerire che sia la Vergine ad aver bisogno di conforto: Iside, vedova inconsolabile di Osiride. Un altro quadro molto simile a questo pare vegliare sui resti dei caduti della prima guerra mondiale custoditi nel sacrario della cripta allestita successivamente sul basamento della Gran Madre di Dio.
Lo abbiamo visto, il legame che unisce la città con l’Egitto è forte. Non a caso qui ha sede il Museo Egizio, secondo al mondo per importanza dopo quello del Cairo, ma primo per costituzione, la cui nascita è da attribuirsi all’interesse per l’Egitto e per l’esoterismo in generale della dinastia Savoia. Tutto inizia nel 1630 con l’acquisto da parte di Carlo Emanuele I di una mensa isiaca (sì. Iside, ancora lei!), ma ad arricchire la raccolta ci pensarono successivamente Vittorio Amedeo II a cui si deve la fondazione del Museo della Regia Università nel 1724 e Carlo Emanuele III, che nel 1757 inviò in Egitto tal Vitaliano Donati con l’incarico di acquistare quanti più reperti potesse per arricchire la collezione. Ma la svolta vera e propria, quella che diede origine alla meraviglia che il Museo Egizio rappresenta oggi, avvenne quando nel 1824 Carlo Felice acquistò la collezione di oltre 8000 reperti di proprietà di Bernardino Drovetti (ex console di Francia) e spostò le stanze dell’allora Regio Museo delle Scienze sito in via Po, nell’attuale sede del museo che, sotto la sapiente guida del direttore Schiaparelli, continuò ad arricchirsi ed impreziosirsi di opere grazie a nuovi scavi e ricerche.
Storia e leggenda si mescolano, è vero, ma questo alone di mistero ci lascia la libertà di interpretare i segni e i simboli che possono svelarsi agli occhi di coloro che sapranno dove puntare lo sguardo.