Il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte può essere certamente considerato il fondatore dell’idealismo ed esemplare espressione del Romanticismo tedesco. Soprattutto, però, ci colpisce per la sua visione attivistica ed etica dell’esistenza, una visione che lo rende un rappresentante tipico della concezione moderna dell’uomo, che deve interpretare la vita come impegno, sforzo, missione, libertà e movimento. Tutti pilastri del pensiero occidentale.
Nel suo lavoro intitolato Dottrina della scienza, datato 1794, Fichte ha affrontato il problema del noumeno kantiano. “Non c’è una realtà di fronte all’Io; ciò che esiste fuori del mio pensiero ha un senso per me che lo rappresento, perché in me la sua esistenza ha un valore, ma la dottrina kantiana del noumeno (ciò che è soggetto alla pura ragione, in contrapposto al fenomeno che è oggetto della conoscenza sensibile) consentiva di ammettere l’esistenza di un’altra persona di fronte a me, come realtà in sé, avente un valore e una realtà non riducibile alla rappresentazione che io me ne formo.
Con la tesi fichtiana della posizione del Non-Io da parte dell’’Io, la realtà dell’altro sembra vanificarsi, infatti se tutto ciò che non è il mio io è non-io, allora sorge il problema che può portare alla chiusura di ogni possibilità di rapporto umano. Ma, dice Fichte, non è possibile che non sia io a riconoscere l’esistenza degli altri, cioè, se potessi non essere io a riconoscere l’altro, dovrei diventare l’altro; ossia dovrei perdere me stesso, non essere più “io”.
Se riconosco, dunque, l’io altrui, allora mi si impone il problema del rapporto morale con gli altri.
Riconoscendo agli altri lo stesso scopo della mia propria esistenza (che è la libertà, il raggiungimento della condizione pura dell’Io) allora il mio compito è quello di agire in modo che l’altro possa raggiungere la libertà.
Il dovere di ogni uomo verso l’altro è quello di aiutarlo nella liberazione. Ma la maggiore responsabilità rispetto a questo dovere ce l’ha il dotto che, in virtù della sua più profonda conoscenza e quindi della sua maggiore consapevolezza di sé, ha raggiunto nei confronti degli altri un maggior grado di libertà.
Al dotto spetta il compito principale di svegliare le coscienze e di favorirle con la sua scienza nel cammino verso la liberazione.
Il dotto non può essere, pertanto, un uomo isolato nella torre della propria scienza, ma deve essere un uomo pubblico, con responsabilità sociali.
Il dotto è in modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società (…); ha perciò il dovere tutto speciale di perfezionare in sé eminentemente e al massimo grado i talenti sociali, cioè la facoltà ricettiva e la facoltà comunicativa. Egli deve conservarsi questa facoltà ricettiva con lo studio continuo e cercare di premunirsi da quella sordità di fronte alle opinioni ed espressioni altrui che spesso s’incontra anche presso eminenti pensatori originali. La facoltà comunicativa poi è continuamente necessaria al dotto, perché egli possiede la sua scienza non per sé ma per la società. Quelle conoscenze che egli ha acquisito per la società, il dotto deve ora effettivamente applicarle a vantaggio della società; deve condurre gli uomini alla coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti per soddisfarli. Inoltre c’è in tutti gli uomini un sentimento vero, che certo da solo non basta, ma dev’essere sviluppato, saggiato, raffinato; e far ciò è appunto compito del dotto. Così il dotto, conformemente al concetto che ne abbiamo sviluppato fin qui, è, per sua destinazione, il maestro del genere umano.
Ma egli non deve soltanto istruire genericamente gli uomini. Egli vede non solo il presente ma anche il futuro; non vede solo la situazione attuale, ma anche il punto verso cui l’umanità deve camminare se vuol mantenersi sulla strada della sua ultima meta, senza sviarsene o retrocedere. Egli non può pretendere di trascinarla d’impeto fino alla meta, perché essa non può procedere a sbalzi nel suo cammino; deve solo badare che non si fermi e non retroceda. Sotto questo riguardo, il dotto è l’educatore dell’umanità.
Egli agisce sulla società; questa è basata sul concetto della libertà; essa e tutti i suoi membri sono liberi; ed egli non deve agire su di essa se non con mezzi morali. Il dotto non cadrà nella tentazione di prendere gli uomini con mezzi coattivi, con l’uso della forza fisica, per indurli ad accettare i suoi convincimenti (…), ma egli non deve nemmeno ingannarli. Nella società ogni individuo deve agire per libera scelta e per una persuasione da lui giudicata sufficiente; deve poter considerare se stesso in ogni sua azione come scopo, ed essere considerato tale da ogni membro. Chi viene ingannato viene trattato solo come mezzo. Il fine supremo di ogni singolo uomo, come della società tutta intera e, di conseguenza, di tutta l’operosità sociale del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo. È dovere del dotto di mirare sempre a questo fine ultimo e di tenerlo presente in tutta la sua attività sociale. Ma non potrà mai lavorare con successo per il perfezionamento morale chi non è, per conto suo, un uomo buono. Perciò il dotto, considerato per quest’ultimo riguardo, deve essere l’uomo moralmente migliore del suo tempo: deve rappresentare in sé il più alto grado di perfezionamento morale possibile del suo tempo.
Così si esprime il filosofo nella sua opera indicandolo maestro, educatore, uomo migliore moralmente.
Questi ritengo siano e debbano essere sempre i nostri compiti. La Libera Muratoria assume su di sé gli oneri che Fichte assegna agli uomini dotti, il riconoscimento dell’altro come un Io dà un senso profondo alle norme giuridiche e alle norme etiche che regolamentano il rapporto tra gli uomini come rapporto tra le libere volontà.
Le prime considerano quel rapporto sotto il profilo dei diritti delle persone, le seconde sotto quello dei doveri.
Il concetto del dovere che deriva da quella legge morale è addirittura opposto, nella maggior parte delle sue connotazioni, a quello del diritto. La legge morale comanda categoricamente il dovere; la legge giuridica consente soltanto, ma non ordina mai, di esercitare il proprio diritto. Anzi la legge morale proibisce spesso l’esercizio di un diritto che non cessa per questo di essere tale.
Il concetto di diritto riguarda il rapporto tra esseri razionali. Esso ha dunque luogo solo a condizione che tali esseri vengano pensati in rapporto l’uno con l’altro.
Esseri razionali entrano in reciproco l’uno con l’altro solo per il tramite di azioni, di estrinsecazioni della loro libertà: il concetto del diritto si riferisce pertanto solo a ciò che si manifesta nel mondo sensibile. Ciò che in esso non ha causalità, ma permane nell’interiorità dell’animo, è di competenza di un altro tribunale, quello della morale.
La norma giuridica, dunque, riguarda la volontà nelle sue manifestazioni oggettive, esteriori, mentre quella etica riguarda la volontà nella sua dimensione. Vi è un legame tra diritto e moralità: il diritto precede la moralità, nel senso che mentre è possibile un diritto senza una morale, non può darsi una morale senza un diritto.