«Ordina alla tua anima di viaggiare fino all’India ed essa sarà là, più veloce del tuo comando. Ordinale di trasferirsi sull’Oceano e di nuovo essa sarà là, non come se avesse viaggiato, ma come se fosse già sul posto [...], comandale di volare in cielo: nulla le farà da ostacolo, né il sole, né il fuoco, né l’etere […] tagliando tutti gli spazi, essa volerà fino all’ultimo dei corpi celesti, e se tu volessi sfondare la volta dell’universo stesso e contemplare quello che c’è al di là, potresti farlo […]. Espandi te stesso fino a una misura incommensurabile, balza lontano da ogni corpo, va al di là di ogni tempo, divieni Eternità e concepisci Dio».
Così il Nóus divino istruisce Ermete e lui, a sua volta, ammaestra noi, nell’undicesimo trattato del Corpus ermeticum, su una facoltà essenziale per il percorso iniziatico che conduce a evadere dalla prigione angusta del qui ed ora, dalla determinazione — necessaria e insieme ingannevole — dello spazio e del tempo, dell’estensione e del molteplice. E la facoltà in questione è quella del phantazésthai, dell’«immaginare» inteso non come sbrigliata e vaga fantasticheria cui la mente si abbandona incontrollata in balia dei desideri e delle reattività molteplici del quotidiano, bensì come disciplina rigorosa che dischiude porte ed eleva, in progressione ordinata, all’esplorazione dei molteplici piani e stati della realtà, muovendo dall’esplorazione del cosmo materiale per ascendere sino al principio primo. Perché, come il trattato stesso chia- risce, tutti gli esseri, tutto l’universo corporeo e tutti gli ordini di realtà non solo sono adunati e implicati in Dio come unità ontologica e pensiero — essere e pensiero che fanno uno — ma si danno e sono posti pres- so di lui anche állos, in «altro modo», ovvero come asómatos phantasía, come immagine e immaginazione «incorporea». La phantasía infatti, insieme a tutte le sue produzioni, costituisce a tutti gli effetti una sorta di dimensione intermedia e potenza mediatrice tra l’assoluta trascendenza dell’idea-archetipo, priva di estensione e figura, inimmaginabile e inconcepibile, e il diverso orizzonte sensibile in cui tutto, per contro, è corpo, forma e figura, che si estende e ha dimensione. I maestri della tradizione platonica — da Sinesio a Proclo — torneranno frequentemente su questo concetto e su questa essenziale risorsa. La phantasía è come uno specchio su cui si raccolgono e si svolgono in rappresentazione i dati che giungono dalla percezione dei sensi, divenendo comprensibili e significanti. Ed è questa la modalità più ordinaria con la quale la esperiamo: non si dà, nel comune vivere umano, pensiero che non sia e non si componga nell’anima come rappresentazione; noi non possiamo esistere e pensare senza immagini nel nostro vivere corrente: moriremo all’istante senza di esse. Ma la phantasía è, dall’altro lato, uno specchio prezioso in cui si prendono forma e manifestazione tutte le potenze e gli esseri che appartengono al regno dell’intelligibile e dell’assolutamente incorporeo: le idee e gli dei che, con le loro potenze luminose scaldano e irraggiano l’immaginazione, mostrandosi e apparendo al vertice della psyché, ispirandola e accendendola di slancio all’ascesa. Le ali dell’anima — dicono i maestri di questa tradizione, reinterpretando la nota immagine del Fedro platonico — non sono altro che il frutto che la phantasía ci dona. In questo orizzonte di pensiero e insieme di pratica, la phantasía inerisce propriamente a un corpo sottile di cui l’anima è dotata: un corpo sottile di cui la psyché si riveste nella sua discesa all’incarnazione, prendendone a prestito la sostanza dalle sfere celesti. Per questo la phantasía è detta anche «veicolo» o «corpo pneumatico» dell’anima perché è ciò che le consente di scendere quaggiù, così come all’apposto di risalire lassù non solo al momento della morte — nel distacco dal corpo di carne o, come si suole dire in tale ambito, dal «corpo terrigno» — ma ogni qualvolta il veicolo della phantasía si disponga, con opportuna ascesi e teurgia, a ricevere gli influssi che provengono dai piani superiori dell’essere. La phantasía, ovvero «il veicolo etereo e luminoso che circonda l’anima» — annotava Giamblico nel suo Dei Misteri —, «viene illuminato di luce divina e, in tal modo, immagini divine, messe in moto dalla volontà degli dei, colgono la nostra potenza immaginativa», e noi possiamo così entrare in contatto non solo con ogni altra realtà del cosmo — ove che essa sia collocata nel tempo e nello spazio —, ma anche e soprattutto con l’invisibile stesso. Spiega ancora Proclo che, nel suo Commento alla Repubblica:
«Gli dei sono incorporei, ma i loro spettatori hanno un corpo. Perciò le visioni che si originano dagli dei, presentandosi a coloro che ne sono degni, partecipano di un tratto derivante da coloro che le inviano e, al medesimo tempo, di un carattere congenere a chi le vede. Per questo, tali immagini sono e insieme non sono propriamente oggetto della vista. Infatti […] esse vengono colte attraverso i rivestimenti luminosi dell’anima, e spesso ciò avviene a occhi chiusi. Nella misura in cui tali immagini hanno un’estensione […], esse risultano congeneri agli spettatori. Ma, in rapporto alla luce divina che viene proiettata, esse sono dotate, invece, di una loro efficacia: attraverso la rappresentazione dei simboli degli dei, tali visioni riproducono l’immagine della loro potenza e dipendono dagli stessi dei che le inviano. In tal modo i simboli ineffabili delle divinità ricevono una forma, proiettando ora una figura ora un’altra». Parole essenziali e chiarificatrici: le immagini che, nel- la phantasía acconciamente e teurgicamente preparata, si producono sono rappresentazione diretta della realtà divina, così come possiamo accoglierla nello stato dell’incarnazione — noi che abbiamo corpo e abbiamo bisogna di figure, gli dei e le idee che non ce l’hanno, ma lo assumono fantasticamente per entrare in relazione con noi, se lo vogliamo. Di più: tali rappresentazioni «fantastiche» appartengono — come Proclo incidentalmente sottolinea — al registro dell’espressione simbolica poiché, come la parola «simbolo» implica, esse mettono insieme e in relazione reciproca, il vicino e il lontano, il visibile e l’invisibile, l’umano e il divino, il sensibile e l’intelligibile, la dimensione del molteplice corporeo e l’unità assoluta del principio. Ma, perché questo avvenga, il «corpo pneumatico», la phantasía, deve trovarsi in uno stato di assoluta purezza attraverso un regime di vita che, con ogni sforzo, ne assicuri tale condizione: una phantasía, un corpo sottile intorbidato dalle passioni del corporeo e dagli influssi incomposti del divenire, distratta dal disordine del divenire, non può essere specchio di nulla che giunga dall’alto. Essa deve essere mondata e immacolata, giorno dopo giorno. E ancora: deve trovarsi in uno stato di raccolta unità e venire «dinamizzata» energeticamente dal rito, dalla preghiera e dalla concentrazione interiore. Solo a questo punto, può e deve essere esercitata, grado per grado, liberandola dalle angustie della percezione animale e da ciò che è più immediato e locale in senso corporeo. Per questo, nella citazione iniziale del Corpus hermeticum, si raccomanda, in modo esemplificativo, di «ordinarle» di portarci fino all’India — nel luogo più lontano e con una modalità che deve prescindere dallo scorrere del tempo — per poi volare in cielo fino al sole e agli astri, danzando con le sfere e con gli astri, e ancora oltre, balzando al di là dello spazio, «sfondare la volta dell’universo» a raggiungere Dio. Si tratta di portare, in noi e nell’immaginazione, tutto il cosmo in un istante, e quindi di trascenderlo del tutto per «concepire» in noi il divino stesso. Portare e raccogliere in noi la realtà significa, come il testo stesso suggerisce, «espandersi», «accrescersi» al di là della finitezza dimensionale dell’individuo incarnato, dilatarsi al tutto, per essere tutto, e, attraverso il tutto, coincidere, con un ulteriore sforzo, con l’unità da cui ogni cosa scaturisce come da una sorgente eterna. E quando ciò avviene, all’apice dell’esperienza stessa, si finisce per evadere dalla phantasía stessa, non più necessaria, ma solo appunto «veicolo» per toccare l’essere e l’uno. Su questa disciplina immaginativa — che è insieme, nel suo realizzarsi, purificazione, concentrazione e meditazione liberatrice — i testi del neoplatonismo si soffermano, offrendo, talora, una sorta di esercizio guidato. Uno dei più suggestivi è contenuto nelle Enneadi di Plotino che, ai suoi discepoli e lettori, raccomanda:
«Forma nella tua anima l’immagine luminosa di una sfera che contenga in sé tutte le cose, esseri in movimento e in quiete, e poi, conservando tale rappresentazione, immagina un’altra sfera ma, questa volta, priva della sua massa: elimina in essa anche lo spazio e la rappresentazione della materia, e stai attento a non farla diversa dalla prima, attribuendole solo una dimensione più piccola. E, a questo punto, invoca il dio che ha prodotto ciò che stai immaginando, e pregalo di venire. Ed egli giunga portando il suo universo e tutti gli dei che sono in esso, dal momento che egli è uno e tutti, e ognuno è tutti». E ciò che, a questo punto, appare, così come l’umana natura consente, è la visione ineffabile della sconvolgente bellezza del mondo delle idee e di tutti gli dei che lo abitano, bellezza in cui i «molti» sono «uno», in cui ciascuno essere incorporeo è insieme sé stesso e tutti gli altri al medesimo tempo. Al di sopra di essi, l’uno, sorgente da cui eternamente sgorgano essere, vita e pensiero.
Il corpus hermeticum, le opere di Plotino, Giamblico, Sinesio e Proclo dispensano indicazioni teoriche e pratiche della phantasía così intesa, strumento di ascensione e di liberazione: apertura al tutto e identifica- zione folgorante con l’unità, evasione dalla materia e possibilità di assimilazione a Dio, rottura del guscio individuale e accrescimento infinito della visione e, con la visione, della coscienza. Altri, nel tempo, se ne faranno eredi e continuatori, in luoghi e tempi diversi. Nell’islam iranico, ad esempio, con la raffinata e complessa geografia del cosiddetto «ottavo clima» o «ottavo continente»: il continente dell’immaginazione «vera» e salvifica, a cui appartengono le manifestazioni angeliche e tutte le ierofanie, il mondo «intermedio» o mundus imaginalis in cui prendono corpo incorporeo, oltre che senso e potenza salvifica, i simboli dei riti, i racconti del mito e delle epopee mistiche; «ottavo clima» le cui luci risplendono nell’immaginazione, ancora una volta, preparata e addestrata a questo scopo. E ancora, scorrendo nei secoli, ritorna at- traverso le altrettanto sapienziali elaborazioni di Marsilio Ficino, dalla Theologia platonica al De vita, ove immaginazione e immagine sono insieme strumento terapeutico dell’anima e veicolo di rivelazione. E più oltre, Giordano Bruno che nelle sue opere ripetutamente implica e rinvia, ora in modo esplicito ora in modo implicito, a tale secolare tradizione, che mostra di ben conoscere, amalgamandola con la sua complessa arte della memoria. Dal De umbris idearum alla Lampas triginta statuarum nulla di ciò che egli suggerisce e articola si può realmente comprendere se non nel quadro evocato. Attraverso un’immaginazione guidata che sintetizzi tutte le forme e le muova plasticamente in sé stessa — insegnava il Bruno — è possibile concepire e riprodurre «la struttura e la scansione ordinata del mondo triplice», così come delle cose in esso contenute», diventando dei novelli «Mercuri» in grado di illuminare e rigenerare il mondo secolare. È solo attraverso l’uso sapiente di tale facoltà immaginativa che — egli ripeteva spesso — ci è possibile abbracciare e cogliere la natura nella sua unità e nella sua universalità, nelle sue eterne vicissitudini ma al contempo, nella sua legge profonda, così da protenderci — noi umani, che siamo «ombra profonda» — verso la luce suprema. È grazie al dono e all’esercizio di una phantasía infiammata al suo massimo grado di potenza che — insisteva ancora il Nolano — possiamo raggiungere quell’«eroico furore» capace, a un certo punto, di cogliere la «Diana nuda», venendo a coincidere, nell’immedesimazione più completa con l’oggetto del nostro desiderio più alto, con la verità, così come l’umano realizzato può esperirla.
«Sulla scala che dalle apparenze mondane porta alla loro origine, all’assoluto, l’immaginazione è il piolo centrale», annotava, in anni a noi più vicini, Zolla nel suo concentrato e meraviglioso Verità segrete esposte in evidenza. Un «piolo» su cui anche noi dobbiamo salire e fondarci nella raccolta concentrazione del Tempio, nell’incontro con i simboli che lo adornano, nei gesti del rito in cui la nostra stessa immaginazione può nutrirsi ed espandersi nel senno e nel giubilo di ogni tornata.
D. S.