Ho tra le mani una cronaca di oltre cento anni fa. Chi scrive è un certo signor De Brandt, che fu inviato nel Celeste Impero dall’allora impero germanico. Era un profondo conoscitore dell’animo cinese, definito un crogiuolo di debolezze, miserie, virtù, tutte provenienti dalla medesima sorgente. In Cina, più che altrove, i veleni sono dei rimedi, i rimedi dei veleni.
Nella seconda metà del VI secolo a.C. quando la Cina, soggetta al regime feudale, era divisa in ducati ereditari e gli imperatori godevano di una sovranità spesso illusoria, un uomo di nome King-Kiù, chiamato poi Kùng-fu-tsé e dai gesuiti Confucio, fece molto parlare di sé. Dicono i suoi biografi che sempre, fin da giovane, l’aspetto di un vegliardo. Abitudinario, cerimonioso, era molto attento a ogni particolare, non si allontanava mai dalle regole che si era imposto. Sapeva ridere, ma più spesso era brusco, ombroso, poco accomodante. Amava i morti, criticava i vivi, verso i quali non perdeva occasione di rivelare verità spiacevoli. Un missionario? Certo che no. Piuttosto un professore di morale, che voleva trasmettere la saggezza dei principi al popolo.
Un simile personaggio può essere calunniato, anche ingiustamente. Di lui si dice che cercasse l’elogio dei potenti. È vero, Confucio non disdegnava gli onori, ambiva a diventare consigliere ai massimi livelli; è la debolezza dei professori della morale. Parlava però più di doveri che di diritti: “I popoli non sono stati creati per i prìncipi, ma i prìncipi per i popoli. Chi regna deve saper dominare le proprie passioni, chi vuole educare deve innanzitutto curare la propria educazione”.
Non amava i dogmi, le sottigliezze teologiche, le speculazioni mistiche. Ogni suo riferimento tendeva alla morale. Era un pratico, pensava che la rettitudine del pensiero fosse la base di ogni buona condotta. Pensava bene per vivere bene. Voleva insegnare la virtù e per un destino veramente straordinario ha esercitato un’influenza così profonda su di un impero così immenso, che le istituzioni e il carattere cinese porteranno sempre la sua impronta.
La Cina è la sola nazione al mondo che abbia avuto come istitutore un triste vecchietto, che non ha mai compiuto miracoli. I testi classici della scuola confuciana sono in toccante contrasto con le letterature indù, greca e romana. Nessuna descrizione immorale, nessuna espressione colorita. Il cinese che aspirava a servire lo stato doveva per prima cosa provare pubblicamente di conoscere le leggi morali. L’imperatore era responsabile verso il cielo di ogni suo atto, la felicità del popolo doveva essere anteposta a quella dei governanti. Il governo doveva reggersi sulla virtù.
La Cina non ha avuto solo Confucio come maestro. Ci sono stati anche mistici, metafisici che predicavano il distacco dalle cose terrene, il ritiro, il riposo, il silenzio. Confucio invece era un realista, rifiutava i ragionamenti barocchi e anche per questo il suo insegnamento è da alcuni considerato freddo, perché combatte le superstizioni che turbano, ma colorano e abbelliscono la vita. Un lato dell’animo cinese crede nelle potenze occulte, interpella indovini e astrologi, apprezza il Feng-shui, o l’arte di farsi obbedire dai venti e dalle acque. Gli importa sapere quali giorni sono favorevoli per celebrare un matrimonio, per abbattere un albero, ma soprattutto scegliere bene il luogo della sepoltura. Vi sono luoghi funesti, dove i morti sono tormentati dalle potenze delle tenebre. E quando i morti non sono in pace, i vivi ne risentono. Nelle questioni difficili, quelle che non possono risolvere né gli astrologi né gli indovini, il cinese si rivolge a Buddha. Soprattutto per quanto concerne la vita oltre la morte, trascurata da Confucio., la cui saggezza fu a lungo in conflitto con il pensiero buddista, ritenuto pericoloso, per le sue tendenze ascetiche e la disciplina monacale, per quelle virtù familiari che fanno prosperare le nazioni.
Ma la Cina è anche il paese degli accomodamenti, per cui pace fu presto fatta tra Confucio e Buddha. L’uomo del popolo pensa sia bene vivere in buoni rapporti con tutti gli dei e tutti i loro rispettivi ministri.
Un giapponese disse, un giorno, al signor de Brandt: “Noi nasciamo scintoisti, viviamo come confuciani e moriamo come buddisti”. Il cinese, invece, sempre secondo il signor de Brandt, ha sin dalla nascita Confucio nel sangue, la sua religione naturale è quella del culto degli avi e degli eroi, senza dogmi e senza leggende, pur non rinnegando le superstizioni, grazie alle quali può ricercare la propria felicità, per questo mondo e per l’altro.
In Cina il confucianesimo è stato sempre la religione di stato. Ogni candidato a pubbliche funzioni deve provare di aver assimilato i testi e i precetti di Confucio, di esserne stato plasmato per sempre. Sostiene ancora de Brandt: “Il confucianesimo è l’anima della civiltà cinese. Di secolo in secolo ha influito sull’integrità della famiglia e dello stato. Grazie alla sua influenza, la Cina non ha conosciuto né fanatismo, né inquisizione, né anarchia. Il Celeste Impero è il solo paese in cui una filosofia è diventata un bene comune di tutto un popolo, guidandolo a regolare i suoi costumi e la sua vita”.
Questo schivo vecchietto non ha inventato nulla, ma è senza dubbio all’impersonalità della sua dottrina che si devono i suoi grandiosi successi. Era il più cinese di tutti i cinesi, l’uomo delle tradizioni perdute che ha recuperato e riproposto antiche saggezze, il regime patriarcale dei tempi lontani che non riteneva incompatibile con una civiltà raffinata. Pensava che la famiglia, nel senso antico e tradizionale del termine, fosse la pietra angolare su cui poggia ogni civiltà; pensava che l’individuo, per acquisire diritti, dovesse far parte di una comunità domestica, una comunità composta di vivi e di morti nella quale, per prosperare, i vivi si devono aiutare reciprocamente e i morti devono essere onorati.
“Lavorate molto – predicava Confucio – consumate poco. Controllate i vostri piaceri e i vostri dolori, solo così si raggiunge l’armonia del cuore. E quando l’armonia è perfetta, l’ordine regna in cielo e in terra. Dalla pietà filiale derivano tutte le virtù. A ben esaminarle, le virtù civili e sociali non sono altro che virtù domestiche. L’imperatore è un padre che deve anteporre la felicità dei figli e deve seguire gli insegnamenti dei saggi”.
Così la Cina, più che un popolo, è un’immensa famiglia. L’impero si divide in province grandi come regni interi, vi crescono le più diverse varietà di fiori, esistono tutti i climi, si parlano decine di dialetti differenti. Ma l’unità morale sostituisce quella politica, ovunque gli stessi costumi, le stesse cerimonie, l’organizzazione patriarcale della famiglia.
Confucio aveva il genio dell’immutabile.
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Le virtù domestiche, se sono per una nazione l’elisir di lunga vita, possono anche provocare risultati negativi; come può un individuo prodigarsi per il bene pubblico se deve dare la precedenza agli interessi familiari? Spesso un funzionario, in Cina, deve acquistare il proprio impiego e, come ogni dipendente, ha un padre, dei fratelli, altri parenti di quarto grado, finanche al dodicesimo, per i quali è tenuto a impegnarsi in qualcosa. Confucio parla a questo proposito di debito d’onore. Come funzionario pubblico si permette a volte comportamenti illeciti, si prende delle libertà, cosa che si vergognerebbe di fare per il suo interesse privato.
Le società più vicine alla perfezione (e ne esistono ben poche!) sono quelle che riescono a conciliare il bene pubblico e gli interessi privati.
Non bisogna però pensare che la dottrina di Confucio si sia imposta senza lotte. Imperatori cinesi geni dell’amministrazione e della guerra, non potevano perdonare a questo vecchio di aver limitato la loro libertà d’azione e volevano affrancarsi dalla tirannia dei buoni princìpi. Fra questi vi fu un uomo eccezionale, Tsin-Shi-Wangti, fondatore della dinastia Tsin nel II secolo a.C., che trasformò la Cina feudale in un unico, immenso impero. Fu uno dei più grandi sovrani della storia, ma un fermo oppositore della religione di Confucio, un persecutore di saggi e letterati dei quali rifiutava ogni insegnamento, ritenuto come un’indebita intromissione. Fece bruciare molti libri e cadere molte teste.
Ma Confucio fu poi vendicato e riabilitato dalla dinastia Han. Fu allora, nel II secolo d.C., che la sua dottrina divenne religione di stato. Si costruirono templi, e nel 1657 la dinastia Manciù gli conferì il titolo di Perfetto Saggio.
Al lettore più paziente chiedo di soffermarsi su questa piccola carrellata storica, interrogandosi su quale eredità abbia lasciato il confucianesimo nella Cina contemporanea, apparentemente così distante da quella qui raccontata.
O forse no?
Liberamente tratto dall’archivio di Delta