PULCHERIA, L’IMPERATRICE VERGINE
Ælia Pulcheria (399-453) fu imperatrice dell'Impero romano d'Oriente; era la seconda figlia dell'imperatore d'Oriente Arcadio e dell'imperatrice Ælia Eudossia e, poiché era la più anziana ad essere sopravvissuta ai genitori, nel 414 d.C., all'età di quindici anni, fu proclamata Augusta (imperatrice) dal Senato e nominata reggente del fratello minore Teodosio; fu una Deo coronata (incoronata per grazia divina) e insignita del titolo di basileia (detentrice della regalità); nello stesso anno l’altro importante avvenimento della sua vita: profondamente religiosa, fece voto di perpetua verginità.
Pulcheria detenne un forte potere politico e influenzò notevolmente il fratello minore. Quando Teodosio II morì inaspettatamente, nel luglio del 450, per una caduta da cavallo, Pulcheria sposò Marciano, un militare d’alto rango, che così, il 25 agosto del 450, divenne imperatore, ma dovette accettare due condizioni: obbedienza a Pulcheria e rispetto del suo voto di verginità.
In questo quadro ricordiamo il concilio di Calcedonia, che sancì la natura divina ed umana del Cristo e l’importanza della sede vescovile di Costantinopoli (451), con diritto di nominare vescovi nell’Impero d’Oriente; seguirono editti imperiali a sostegno delle decisioni prese durante il Concilio. Dal punto di vista della situazione femminile, non certo paritaria nella società dell’epoca, fu emendata una legge di Costantino che vietava il matrimonio tra donne di basso ceto (humilis), schiave, liberte od attrici, ed uomini di classe senatoriale, ritenendosi ingiusto discriminare una donna in base alla ricchezza od al ceto sociale.
D’altra parte, nel 451 la libertà di pensiero fu ulteriormente limitata da una legge che prevedeva la condanna a morte per chi praticasse riti pagani e proibì la riapertura degli antichi Templi; il funzionario imperiale, giudice o governatore che non applicasse queste disposizioni, veniva multato di 50 libbre d’oro.
Pulcheria morì tre anni dopo il matrimonio, poco più che cinquantenne, tra il dolore del popolo di Costantinopoli e soprattutto dei poveri, dai quali era amatissima; nel suo testamento dispose che "tutte le sue ricchezze rimanenti fossero distribuite tra i poveri".
Pulcheria fu elevata agli altari della Chiesa Cattolica Romana e di quella Ortodossa ed è ancora venerata in molti paesi; sono emblematici i suoi ritratti russi, di pura immaginazione, dove la sua bellezza è simbolo della bellezza della sua anima. Ad ogni modo, il nome Pulcheria viene dall'aggettivo latino “pulcher”, che significa bello e buono allo stesso tempo. Ciò che sappiamo della sua vita deriva principalmente dalla Storia ecclesiastica di Sozomeno e da Socrate Scolastico.
I mosaici del suo tempo ritraggono una donna bella e dall'aspetto dignitoso, ma Pulcheria appare molto diversa dalla donna dagli occhi blu, idealizzata in opere pittoriche ben successive.
Dalla storia, sappiamo che era colta e intelligente e fu la vera forza dell'Impero, diventando la guida del fratello minore Teodosio, e che ebbe una grande influenza sulla dottrina della Chiesa in quanto fu il primo riferimento dei due Concili di Efeso e del Concilio di Calcedonia e, appoggiata da Cirillo, patriarca di Alessandria, guidò la battaglia contro le eresie nestoriane ed eutichiane.
Secondo Sozomeno, Pulcheria “Consacrò la sua verginità a Dio e persuase le sue sorelle a fare altrettanto. Per evitare scandalo e occasioni di intrighi, non permise a nessun uomo di entrare nel suo palazzo. A conferma della sua decisione, prese come testimoni Dio, i sacerdoti e tutti i sudditi dell’Impero Romano.”
Socrate Scolastico scrisse che Pulcheria fece voto di verginità e convinse le sue sorelle a fare lo stesso, tanto che il palazzo imperiale divenne quasi un monastero.
Anche Sozomeno conferma che il palazzo imperiale assunse un tono monastico e di Pulcheria e delle sue sorelle scrisse: “Sono assidue nella loro presenza alla casa di preghiera e dimostrano grande carità verso gli stranieri e i poveri … e trascorrono insieme i loro giorni e le loro notti cantando le lodi di Dio”; rinunciarono dunque ai gioielli e ai costosi abiti utilizzati alla corte imperiale ed introdussero nei rituali di corte due giorni di digiuno a settimana e del tempo dedicato al canto e alla lettura delle Scritture.
Una vita santa, certo, ma con un lato oscuro: la sua lotta contro ebrei, pagani ed eretici cristiani assunse toni davvero esasperati: gli eretici venivano picchiati a morte, templi e sinagoghe distrutti.
Non è facile comprendere come sia stato possibile che una donna così intelligente, istruita e pia abbia agito, in nome della sua religione, in modo così lontano dall'amore reciproco insegnato dal suo Fondatore. Chi è sotto l’influenza del dogmatismo è condotto a credere, in piena coscienza, che qualsiasi mezzo ed imposizione siano non solo giustificati, ma davvero necessari per garantire un mondo illuminato dalla divinità, e d’avere, per il bene dell’umanità intera, il dovere di metterlo in atto.
Da un certo punto di vista, Ælia Pulcheria potrebbe essere simbolicamente vista come un lato oscuro che si rivolge contro la luce del libero pensiero, di cui Ipazia è simbolo, quell’Ipazia che pagò con una morte atroce l’aver sostenuto principi che possono che agiscono per il bene ed il progresso dell'umanità.
È però sempre opportuno ricordare che un approccio al passato basato e sui criteri di giudizio d’oggi non è generalmente corretto e può produrre risultati davvero svianti.
LA VITA D’IPAZIA
Nel marzo del 415, in piena Quaresima, un crimine sconvolse la città di Alessandria: una folla rumorosa aggredì la venerata e saggia Ipazia, la uccise e ne bruciò i resti. Gli assassini facevano parte di "una moltitudine di credenti in Dio", che "si misero alla ricerca della pagana che aveva ingannato il popolo della città ed il prefetto con i suoi incantesimi".
Così la cronaca di Giovanni, vescovo di Nikiu, una diocesi nel Delta del Nilo, che presenta filosofa come una strega in una cronaca scritta quasi tre secoli dopo l'assassinio di Ipazia, che è il testo che, da un lato, offre il maggior numero di dettagli sulla sua morte, ma, dall’altro, rivela una chiara avversione nei confronti della studiosa, la cui stregoneria avrebbe giustificato la sua fine atroce.
Chi era veramente Ipazia e perché fu uccisa?
Siamo ad Alessandria all'inizio del V secolo; a quel tempo, la splendida metropoli fondata nel 331 a.C. da Alessandro Magno, accoglieva ancora una popolazione considerevole ed era la capitale dell'Egitto.
Come città dell'Impero Romano d'Oriente, era governata da un prefetto nominato dall'imperatore di Costantinopoli; tuttavia, sebbene in modo non ufficiale, gran parte della sua popolazione obbediva ai dettami del suo vescovo e patriarca, che era il custode della fede e dell'ortodossia della comunità cristiana.
Da quando l'imperatore Teodosio I aveva proclamato il cristianesimo unica religione dell'impero, il potere ecclesiastico aveva messo radici nelle città e stava soffocando ciò che restava del paganesimo, dando il via ad un periodo d’intolleranza non solo contro i fedeli degli antichi culti, ma anche contro i dissidenti di ogni genere, eretici o ebrei, che ad Alessandria erano molto numerosi.
In questa città, sia il clero che i monaci dei deserti circostanti, e coloro che venivano chiamati parabolani, servitori della Chiesa che fungevano anche da guardie, seguivano i dettami del vescovo e, in tempi di conflitto, non esitavano a scatenare violente rivolte per dimostrare la loro forza, distruggere i templi degli infedeli e mettere a tacere le voci degli eretici.
Le testimonianze disponibili sulla figura di Ipazia e sulla sua morte provengono, oltre che dalla cronaca cui abbiamo appena accennato, da due storici ecclesiastici, Filostorgio e Socrate Scolastico, che scrissero circa vent'anni dopo il crimine e non fecero mistero della loro disapprovazione di fronte all'orrore di quell'atto fanatico. Mezzo secolo dopo, ne scrissero anche il filosofo neoplatonico Damascio , raccogliendo l'eco e i dati di questo avvenimento, e, molto più tardi, il sopracitato vescovo Giovanni di Nikiou.
Come detto, Ipazia, figlia di Teone, illustre matematico e famoso astronomo, divenne un'insegnante molto seguita ed apprezzata, che e teneva lezioni pubbliche sul pensiero di Platone e quasi certamente su quello di Aristotele, attirando numerosi seguaci, e guidava anche i lavori d’una cerchia più ristretta d’allievi selezionati ; sappiamo di questo grazie alle lettere affettuose scritte da uno dei suoi più fedeli discepoli, Sinesio di Cirene, di cui abbiamo riassunto la vita nelle pagine precedenti.
In alcune di queste lettere egli chiede consiglio al suo "amato maestro", e in altre parla di lei agli amici con affetto e ammirazione e promette di ricordarla perfino nell’Ade.
Riferendosi alla sapienza d’Ipazia, Socrate Scolastico scrive: "Raggiunse tali successi nella letteratura e nella scienza che superò di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Proveniente dalla scuola di Platone e Plotino, spiegava i principi della filosofia ai suoi
Sia Filostorgio che Damascio sottolineano che Ipazia superò il padre per la vastità della sua conoscenza dell'astronomia e per la sua dedizione alla filosofia. Infatti, Filostorgio riferisce: "Apprese le scienze matematiche da suo padre, ma divenne di gran lunga migliore del suo maestro, soprattutto nel campo dell'osservazione delle stelle". E Damascio: "Avendo una natura più nobile di suo padre, non si accontentò dell'insegnamento che le diede in matematica, ma si dedicò al resto della filosofia".
Ipazia e suo padre Teone furono gli ultimi rappresentanti della grande tradizione matematica alessandrina.
Ipazia era molto stimata ed ascoltata anche al di fuori dell'ambito scolastico; Damascio descrisse Ipazia come una donna "estremamente bella e di bell'aspetto" e, ci racconta sempre Damascio:"Ipazia, essendo così abile e padrona della dialettica nei suoi discorsi, sensata e civile nelle sue opere, era amata e rispettata dalla città, ed i governanti ricorrevano a lei quando c'era discussione per la città, come accadeva ad Atene. Se in effetti [ora] le cose sono cambiate, [allora] il nome della filosofia era magnificato e ammirato da coloro che amministravano i principali affari pubblici". Ipazia era dunque una figura straordinaria: una donna pagana e saggia, influente e seguita da numerosi discepoli, molto ammirata nella sua città: tutti questi aspetti resero la sua uccisione da parte di alcuni cristiani fanatici un evento esemplare.
Ancora Damascio lancia un'accusa chiara al patriarca e spiega le ragioni della sua ostilità verso la filosofa:”Accadde allora che Cirillo, vescovo della fazione avversa, passando davanti alla casa di Ipazia, vide vicino alle porte una grande confusione di uomini e cavalli, alcuni in arrivo, altri in partenza, altri ancora in sosta. Avendo poi chiesto cosa fosse quella folla e quella calca presso la casa, udì [rispondere] dal seguito che Ipazia, la filosofa, stava spiegando, e che quella era la sua casa. Avendo appreso ciò, il suo animo si inasprì a tal punto che preparò il suo assassinio, il più brutale di tutti gli assassini.”: le cavarono gli occhi mentre era ancora viva.
Nella sua Storia Ecclesiastica (Libro VI: Cap. 15), Socrate Scolastico, è qui opportuno ricordare che era un cristiano, ci fornisce un resoconto drammatico di ciò che accadde in quel marzo dell'anno 415 d.C.:” Grazie alla padronanza di sé e alla disinvoltura che aveva acquisito coltivando la sua mente, non di rado si presentava in pubblico alla presenza dei magistrati. Né si vergognava di presentarsi a un'assemblea di uomini. Infatti, tutti, per la sua straordinaria dignità e virtù, la ammiravano ancora di più. Eppure, anche lei cadde vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Infatti, avendo frequenti colloqui con Oreste, si diffuse tra il popolo cristiano la calunnia che fosse stata lei a impedire a Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, spinti da uno zelo feroce e bigotto, il cui capo era un lettore di nome Pietro, la assalirono mentre tornava a casa e, trascinandola fuori dalla carrozza, la condussero alla chiesa chiamata Cesareo, dove la spogliarono completamente e poi la uccisero con delle tegole. Dopo averne fatto a pezzi il corpo, portarono le sue membra mutilate in un luogo chiamato Cinaron e lì le bruciarono. Questa vicenda obbrobriosa fece cadere un non piccolo disprezzo, non solo su Cirillo, ma anche all'intera chiesa alessandrina. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che tollerare massacri, lotte e azioni di questo tipo. Ciò accadde nel mese di marzo, durante la Quaresima, nel quarto anno dell'episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio.”
Un atto brutale, così simile ad un sacrificio umano in un rituale di inaudita ferocia, come se una vittima fosse stata sacrificata a una divinità barbarica.
A Costantinopoli fu aperta un'inchiesta, ma il caso fu chiuso senza conseguenze per Cirillo; Damascio e Socrate Scolastico concordano sul fatto che la corte imperiale fosse corresponsabile della sua morte, poiché, nonostante le sollecitazioni di Oreste, non fu preso alcun provvedimento per porre fine ai disordini; è noto che l'imperatrice Pulcheria sostenne Cirillo.
Lo storico Giovanni Malalas (491-578), autore della Cronografia, concorda con l'opinione di Socrate e Damascio.
LE OPERE D’IPAZIA
Ipazia era esperta in molti rami del sapere: filosofia, fisica, matematica, geometria e scienze. Era molto rispettata dai suoi studenti e colleghi, nonostante il suo sesso; scrisse di filosofia neoplatonica, ma tutte le sue opere sono andate perdute, anche se alcuni storici ritengono che frammenti dei suoi scritti possano essere stati incorporati in opere di studiosi successivi, che però non citarono l'autore.
In matematica, la sua opera più significativa è un commentario in tredici volumi all'Aritmetica di Diofanto (II secolo), il "padre dell'algebra", che studiò le equazioni indeterminate – quelle diofantee – e compì importanti elaborazioni delle equazioni quadratiche. Nel suo commentario, Ipazia sviluppò soluzioni alternative a vecchi problemi e ne formulò di nuove che furono poi incorporate nell'opera di Diofanto.
A lei dobbiamo anche un commento in otto volumi alle Coniche di Apollonio di Pergamo (XI secolo a.C.), un'analisi matematica delle sezioni del cono, figure dimenticate fino al XVI secolo, quando furono utilizzate per illustrare i cicli secondari e le orbite ellittiche dei pianeti. In quest'opera Ipazia incluse il Corpus Astronomicus, una raccolta di tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti da lei compilata.
Fu anche autrice, insieme al padre, di un commentario all'Almagesto di Tolomeo, un'opera mastodontica in tredici libri che raccoglieva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell'epoca, e di un'edizione riveduta e corretta degli Elementi di Euclide.
MECCANICA E TECNOLOGIA APPLICATA
Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata; le vengono attribuite due invenzioni: un aerometro od idrometro e un astrolabio piatto.
Storicamente, la prima menzione dell'aerometro è legata alla figura di Ipazia: Sinesio di Cirene scrisse alla sua maestra intorno al 400 d.C. per chiederle spiegazioni sulla costruzione di un aerometro od idrometro, che si presenta come un tubo cilindrico con la forma e le dimensioni di un flauto. Presenta delle tacche perpendicolari, attraverso le quali è possibile misurare il peso dei liquidi. Ad un'estremità è bloccato da un cono saldamente fissato al tubo, in modo che la base di entrambi sia la stessa. Questo è il cosiddetto barillio. Immergendo il tubo in acqua, rimane in posizione verticale ed è quindi possibile contare le tacche, che forniscono un'indicazione del peso.
L'Astrolabio progettato da Ipazia era costituito da due dischi metallici forati, che ruotavano uno sopra l'altro tramite un perno rimovibile: serviva per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti.
Sembra che Ipazia abbia persino risolto alcuni problemi di astronomia sferica utilizzando questo strumento.
È necessario ricordare che alcuni studiosi, ad esempio Charlotte Brooth dell'Università di Birmingham, hanno ipotizzato che non sia stata Ipazia l'inventrice, poiché quegli strumenti erano già stati usati prima, ma che ne abbia semplicemente insegnato l'uso: tutto dipende dall'interpretazione che vien data ai testi antichi.
A lei è dedicato il Centro Internazionale UNESCO per le Donne e la Scienza di Torino, che sostiene lo studio, la ricerca e la formazione di donne scienziate in particolare provenienti dall'area del Mediterraneo e dei Balcani.
COSA SCRISSERO D’IPAZIA
Nelle pagine seguenti troveremo le voci dei liberi pensatori, seguiti dalle critiche, a volte fantasiose ed infondate, di alcuni commentatori cristiani.
Vale la pena ricordare che il mito moderno di Ipazia fu inaugurato da John Toland, massone, come dimostrerebbe un verbale ritrovato nelle sue carte e la sua affiliazione alla loggia "Cavalieri del Giubilo” dell’Aia, nel 1710.
Nel 1720, John Toland pubblicò un saggio intitolato "Ipazia, ovvero la storia di una donna bellissima, virtuosa, istruita e perfetta sotto ogni aspetto, che fu fatta a pezzi dal clero di Alessandria per compiacere l'orgoglio, l'emulazione e la crudeltà del suo arcivescovo, comunemente ma immeritatamente chiamato San Cirillo", un opuscolo di poco più di trenta pagine, in cui l’autore irlandese ricostruisce con precisione la vicenda della filosofa d’Alessandria, avvalendosi sapientemente delle fonti antiche allora disponibili.
John Toland ritiene l'episodio dell'assassinio d’Ipazia un simbolo dell'eterna lotta tra ignoranza e conoscenza, tra superstizione e scienza, tra fanatismo e ragione; altre notizie su Sinesio e, marginalmente, su Ipazia, si trovano nel suo "Clidoforo".
L'abate Nicolas Lenglet du Fresnoy, nella sua "Storia della filosofia ermetica", scrisse: "Sinesio portò in questa città un grande amore per la verità, che aveva perfezionato praticando la virtù. In patria, apprese con stupore che ad Alessandria un'illustre signora di nome Ipazia insegnava pubblicamente la filosofia di Platone. Incantato nello scoprire l'incredibile meraviglia di questa sapiente, entrò nella sua scuola, dove apprese tutti i misteri della filosofia e sviluppò un immenso rispetto per quell'illustre signora, tanto che spesso la chiamava mia madre, mia sorella, mia maestra, mia benefattrice. Questo continuò anche quando fu nominato vescovo e continuò a sottoporle qualsiasi opera che avesse da pubblicare".
Voltaire, nel suo “Un importante esame di Lord Bolingbroke, o la tomba del fanatismo” (1736), presenta la morte di Ipazia come un omicidio perpetrato dai “mastini tonsurati di Cirillo, seguiti da una banda di fanatici”ed addita San Cirillo ed il clero di Alessandria.
Voltaire affronta nuovamente la questione nel suo "Sulla pace perpetua" (1769), ove paragona il vescovo di Tolemaide, Sinesio, discepolo di Ipazia, e Cirillo; di Sinesio afferma che non solo rifiutò di rinnegare la moglie, ma, sul piano teologico, scrisse di non credere né nella resurrezione del corpo né che l'anima fosse generata dopo il corpo con queste frasi: "I vescovi insistettero: fu battezzato, fu fatto diacono, sacerdote, vescovo; riconciliò la sua filosofia con il suo ministero, è uno dei fatti più certi della storia ecclesiastica. Ecco dunque un platonico, un teista, un nemico dei dogmi cristiani, un vescovo con l'approvazione dei suoi colleghi, che era il migliore dei vescovi; mentre Ipazia viene piamente assassinata in chiesa, per ordine o almeno con la connivenza di un vescovo di Alessandria decorato con il nome di un santo. Lettore, rifletti e giudica, e voi, vescovi, cercate di imitare Sinesio".
Ma colui che più di tutti contribuì a salvare Ipazia dall'oblio fu Edward Gibbon, che, nella sua "The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (La storia del declino e della caduta dell’Impero Romano) " (1788), usò la sua vita e la sua morte per illustrare la differenza tra il mondo antico e quello che lo stava sostituendo: Ipazia icona di ragione e tradizione spirituale, Cirillo di dogmatismo ed intolleranza. L'assassinio di Ipazia, nella visione di Edward Gibbon, segnò la fine della sapienza tradizionale nel mondo occidentale.
Margherita Hack, la famosa scienziata, scrisse che: "La storia di Ipazia insegna ancora oggi quanto ostinati possano essere l'odio per la ragione e il disprezzo per la scienza. È una lezione che non deve essere dimenticata e che tutti dovrebbero leggere".
Umberto Eco, nel suo romanzo “Baudolino” parla di una comunità di sole donne, tutte chiamate Ipazia e il suo personaggio Niceta ne racconta la storia: “…era una donna di grande saggezza, esperta in filosofia, matematica e astronomia… uno dei più grandi cristiani del suo tempo, Cirillo, un uomo colto ma intransigente, vide l’insegnamento di Ipazia come contrario ai vangeli e scatenò una marmaglia di cristiani ignoranti e infuriati…”
Bertrand Russel scrisse che: “dopo l’assassinio d’Ipazia, Alessandria d’Egitto non fu più travagliata da filosofi”, affermazione, che alcuni contrastano citando il pagano Olimpiodoro, che teneva lezioni di filosofia circa 150 dopo, ma però giustificata ricordando la fortissima influenza d’Ipazia sulla società alessandrina.
Dora Black (1894-1986), seconda moglie di Bertrand Russell, pubblicò nel 1925 "Ipazia e la guerra tra i sessi”, testo femminista breve, ma di grande spessore.
LA VOCE DEI CRISTIANI, CONTRO IPAZIA
L’opinione di molti tra gli autori di religione cristiane è ovviamente completamente differente.
Pur non dando troppo credito alle parole dei polemisti che cercano di sottovalutare la filosofia o la competenza scientifica di Ipazia, in aperta contraddizione con i suoi contemporanei (Sinesio, ad esempio), vedremo come in ogni caso, la letteratura cristiana, fin dai tempi di Ipazia, abbia compiuto molti tentativi di distorcere i fatti a proprio favore. Ecco alcuni esempi significativi:
Durante il Medioevo, Ipazia fu cooptata come simbolo della virtù cristiana e gli studiosi ritengono che sia stata presa a base della leggenda di Santa Caterina d’Alessandria.
Diodata Saluzzo Roero (1774–1840), nobile donna italiana, poetessa, drammaturga e autrice di prosa, scrisse una storia idealizzata d’Ipazia, in cui quest'ultima si converte al cristianesimo e viene uccisa dai pagani per rappresaglia.
La Chiesa cattolica non ha mai riconosciuto alcuna responsabilità a Cirillo nell'omicidio di Ipazia, né ha ammesso che la difesa intransigente dell'ortodossia religiosa potesse aver avuto effetti collaterali negativi nel suo caso.
Cirillo, già santo sia in Oriente che in Occidente, fu proclamato Dottore della Chiesa nel 1882 da Papa Leone XIII, come ulteriore ricompensa per i suoi meriti, con il titolo di Doctor Incarnationis.
Del resto, Leone XIII era lo stesso papa che, un anno prima dell’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, in un’allocuzione aveva pienamente confermato la legittimità della condanna e del rogo di un uomo “doppiamente apostata, eretico convinto, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa” e che, per giunta, “non possedeva significative conoscenze scientifiche”. Come ha ricordato Silvia Ronchey, autrice di un importante libro storico su Ipazia, citando Umberto Eco, Leone XIII era: "un papa ossessionato dal nuovo paganesimo rappresentato dalla Massoneria e dai liberali anticlericali che dominavano la Roma del suo tempo".
Le parole di papa Leone XIII hanno un solo merito: sottolineano un'analogia tra Ipazia e Giordano Bruno, poiché entrambi pagarono con il martirio la loro concezione filosofica ed il non essersi sottomessi al dogmatismo della religione dominante.
Sebbene la maggior parte dei resoconti contemporanei sottolinei l'impatto sociale della sua vita piuttosto che i suoi contributi alla scienza e alla matematica, non bisogna dimenticare che, nella campagna di denigrazione, il suo insegnamento venne presentato come stregoneria, anche se è improbabile che questa accusa sia stata creduta da coloro che diffusero la voce, ma avrebbe potuto essere accettata dai parabolani, notoriamente fanatici, ignoranti e superstiziosi.
Giovanni di Nikiu considera il linciaggio della filosofa una meritata punizione, accusandola d’aver sedotto ed ingannato Oreste e altri suoi discepoli facendo ricorso alla magia e ad altri inganni satanici.
Sotto questo punto di vista, Ipazia è la prima strega bruciata dai cristiani.
È così fu uccisa Ipazia, resa ancor più vulnerabile d’essere dal fatto d’essere donna, filosofa e sapiente, per aver osato praticare il pensiero libero e la libertà di parola, consigliando all’elite d’Alessandria delle vie diverse da quelle che Cirillo riteneva suo dovere imporre, divenendo tanto un simbolo della distruzione del genio del tradizionale mondo greco-romano, quanto un emblema dell'avvento della società patriarcale e misogina del potere ecclesiastico, che avrebbe portato alla discriminazione della voce femminile per molti secoli a venire.
IPAZIA PER L’ARTE
Ipazia fu oggetto di numerose immagini artistiche, purtroppo nessuna delle quali contemporanea: in realtà non ne conosciamo il vero aspetto. Gli artisti di diverse epoche la rappresentarono seguendo l'ispirazione che la sua storia forniva loro, esaltandone l'aspetto che più li colpiva. Ecco come Jules M. Gaspard nel 1908 mise sulla tela l'idea che aveva di una donna greca.
Dalla prima pagina, Ipazia di Mitchell in un ritratto del 1895, frutto della sua immaginazione, caratterizzato con un’improbabile interpretazione ovviamente anglosassone.
Non conoscendo l'età esatta della filosofa all'epoca della sua morte, poiché il suo anno di nascita è situabile in una fascia d'una decina d'anni, l'aspetto può non apparire quello d'una donna tra i 45 ed i 55 anni, ma non si dimentichi che Cleopatra, quando si suicidò a circa 40 anni, era una donna molto attraente; però l'incarnato latteo ed i capelli biondi non suggeriscono certo un aspetto mediterraneo del tardo IV secolo.
D’altra parte, è frequente che i personaggi assumano i tratti dello stereotipo del paese d'origine dell'autore.
Questa immagine è tratta dalla “Scuola di Atene” di Raffaello; secondo la tradizione, la donna con il mantello bianco è Ipazia, considerata tra i grandi filosofi del mondo classico.
Questa piccola statua in terracotta del V secolo potrebbe forse rappresentare Ipazia, che indossa un mantello chiamato “tribonio”, spesso usato dai filosofi di quel tempo.
Spogliarla del tribonio poteva essere un atto d’oltraggio; tristemente sappiamo come, nella storia, oltraggio e violenza sulle donne sia stato un delitto troppo spesso commesso. Da un punto di vista simbolico, la privazione del tribonio potrebbe essere vista come un'affermazione dell'indegnità d'una filosofia che metteva in dubbio la rivelazione cristiana; quest'ipotesi, noto che i parabolani non potevano arrivare a tanta sottigliezza, comporterebbe supporre la regia di Cirillo o d'un ecclesiastico di livello elevato.
Oppure questo ritratto è stato ispirato dalla figura di Ipazia? Sembra una scelta molto più realistica. di quella di Mitchell.
Questa è invece l’Ipazia come immaginata nel film Agorà
La filosofa fu anche protagonista dell’Opera lirica Hypatia del principe Roffredo Caetani (1871-1961), pubblicata nel 1924 a Magonza e rappresentata per la prima volta a Weimar nel 1926.
Questo medaglione, forse proveniente da un cenotafio dedicato ad Ipazia, era esposto nel Museo d'Afrodisia, in Asia minore, ed andò distrutto da un incendio.
Il medaglione però era stato fotografato da uno studioso tedesco nel 1922, ma non c'è alcuna prova che l'autore avesse conosciuto la filosofa alessandrina in vita.
IL LASCITO D'IPAZIA
Il verso di un epigramma dedicato a Ipazia dal poeta alessandrino contemporaneo Pallade, che recita "tutte le tue azioni sono rivolte al cielo", condensa l'intero significato dell'attività di Ipazia, indicando da un lato il suo amore per l'astronomia, dall'altro la sua tensione filosofica. Esponente del neoplatonismo, Ipazia divenne ed è ancora famosa per:
- il suo impegno civile: insegnò, senza discriminazioni di religione, razza o convinzioni, a quante più persone possibile, non solo a studenti selezionati, e collaborò attivamente con il governo, fornendo pareri e consigli.
- la sua indipendenza: non si sposò per continuare a studiare.
- la sua onestà intellettuale: tenne separate la conoscenza scientifica dalla fede religiosa.
Ipazia fu una figura straordinaria: una donna, pagana e sapiente, influente e seguita da numerosi discepoli, molto ammirata nella sua città, uccisa a causa di ignoranza, fanatismo e ambizione.
Tutte le fonti antiche attribuiscono a Ipazia la convinzione che il nutrimento della filosofia dovesse essere impartito non solo nella sua affollata scuola, e non solo tra i potenti, ma anche nelle piazze e tra il popolo, riconoscendo così alla filosofia un ruolo morale, civile e sociale.
Erano in molti a voler ascoltare la parresia di Ipazia, termine che di solito si traduce con schiettezza, sincerità, libertà di parola.
La parresia è l'attività di chi dice la Verità, intollerante a qualsiasi presupposto dogmatico, che mette in discussione tutto e mette in discussione tutti.
Ipazia rappresenta quella tradizione ininterrotta di filosofi – tra i tanti possibili esempi pensiamo a Pitagora, Socrate, Platone – che non hanno mai rinunciato ad agire sulla città, a trasformare la società, a rendere servizio ai propri concittadini, ad agire secondo giustizia, che hanno sempre saputo, in altre parole, che la vita filosofica implica un impegno comunitario (il ritorno platonico alla caverna). Filosofi che hanno sempre avuto la consapevolezza che questo impegno richiede un lavoro preliminare duro e intenso su sé stessi. Il martirio trasformò Ipazia nel simbolo della libertà del pensiero da ogni pregiudizio.
M. T.