Il Massone e il Trascendente

Il Massone e il Trascendente

"Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”
(Matteo, 7,6)

 

La tentazione iniziale era di dare a questa testo il titolo “La Massoneria e la fede”. Sarei stato però ben presuntuoso, immaginando di poter comprendere, descrivere e inglobare in un’unica regola i rapporti complessi - e spesso fluidi - fra questi due mondi. E sarei stato insopportabilmente presuntuoso se avessi preteso di comprendere i rapporti che ogni singolo uomo intrattiene con il divino, fino addirittura a pretendere di dettarne i termini e a delimitarne i confini. Perché così è: se esiste un atteggiamento dell’intera Istituzione riguardo alla fede, l’incoercibile desiderio di libertà che anima ogni singolo Massone sposta inevitabilmente l’attenzione dall’Istituzione all’Uomo, libero (ancora prima che di buoni costumi), libero di misurarsi con un simbolo, il Grande Architetto Dell’Universo, e di rifiutare qualsiasi dogma.

 


“Il Massone e la fede” mi era quindi sembrato un titolo più accessibile e meno presuntuoso. Tuttavia, è bastata qualche riflessione e la consultazione di qualche testo “sacro” della Massoneria per scartare anche questo. Perché se gli “Antichi doveri” vietano al Massone di essere “uno stupido ateo”, nulla prescrivono su alcun obbligo di fede se non l’obbedienza a quella che viene definita “Religione universale”, ovvero «nell’essere buoni, sinceri, modesti e persone d’onore qualunque sia il Credo che li distingue». Come si vede, si tratta di regole morali e non di precetti di fede. Per citare le parole di Umberto Gorel Porciatti: «Il credo fondamentale del Massone, non credere a nulla ma conoscere».
Allora, ho pensato, forse l’unica chiave di lettura, l’unica regola in grado di comprendere e di unire se non tutti i Massoni sparsi sul globo terraqueo almeno la più parte, è un comune modello di rapporto con il trascendente, più che con la fede.
Poiché la fede è un fatto privatissimo in cui, giustamente, l’appartenenza non mette naso, la regola deve riguardare semmai il trascendente.
Il Massone non può negare la trascendenza né sottrarsi ad essa, né può giudicare in maniera meno che massimamente tollerante il rapporto che gli altri uomini hanno con essa.
In questo modo il Massone si pone in una strana posizione: oltre la fede, accoglie un rapporto più esteso, ancestrale e “naturale” col divino. Un divino che non cerca la propria legittimazione in dogmi o in testi sacri ma che questa legittimazione la trova in un radicamento che è un fondamento culturale e sociale e, più ancora, un fondamento morale. E quando parlo di “ancestrale” non uso la parola con leggerezza: le più importanti ricorrenze fanno espliciti riferimenti a cicli naturali, date non scritte su vecchie pergamene ma nelle mappe celesti, le più sacre, quelle del cielo stellato che ogni Massone riconosce come proprio tetto.
Cicli naturali non legati al tempo, mutevole, ma incisi sulla carne viva di ogni uomo e nella sua memoria ancestrale, intuiti e riconosciuti in un’epoca in cui il divino era prima di ogni altra cosa una chiave di lettura per la comprensione del mondo naturale, un irrinunciabile articolazione di valori, di scansioni temporali, di tecnica e di etica.
Il Massone, insomma, a disagio con religioni codificate, massificate e dogmatiche, coltiva un sentire antico, fatto di tradizione e di ritualità, di ragionato sentimento e di insopprimibile necessità; egli coltiva un senso del trascendente che ingloba, comprende e sovrasta tutte le fedi, ansioso com’è di “abbeverarsi alla fonte” ovvero a quel mistero insondabile che lui sente non estraneo a sé stesso ma già proprio, nella bellezza elicoidale del proprio stesso DNA.
Antico e attuale, vivo e immutabile.
E mi torna in mente un rito a cui ho più volte assistito.
Quando ero poco più che un bambino, ho visto i mietitori di fieno. Erano una decina, di solito, con la loro grande falce, uguale a quella della morte. La mietitura del fieno era un rito rigoroso, ritmico e geometrico. I mietitori si disponevano uno dietro l’altro, a distanza fra di loro di 5 o 6 metri. Il primo apriva il taglio, gli altri lo seguivano. Quando si arrivava alla fine del campo, si tornava indietro e si riprendeva un’altra striscia. Ogni tanto il capofila si fermava ad affilare la lama; quello che seguiva, da lì a un minuto, avrebbe fatto lo stesso e così tutti gli altri. Io (quello era il mio compito) mi precipitavo con il fiasco di vino rosso, che versavo nell’unico bicchiere e che porgevo al mietitore. L’uomo metteva in tasca la cote, alzava il bicchiere al cielo con gesto ieratico e con voce grave scandiva “Prosit!”, rivolto al cielo, al campo e agli altri mietitori. Buttava quindi giù, in un colpo solo, tutto il vino nel bicchiere tranne un filo leggero, che restava sul fondo. L’uomo lo fissava, ruotava il bicchiere come a sciacquarlo con quelle poche gocce rimaste e poi le versava sulla terra. Riprendevo il bicchiere e versavo da bere al secondo e poi, uno dopo l’altro, a tutti i restanti. Erano contadini ignoranti come capre, analfabeti, capaci di parlare solo il dialetto stretto della propria valle. Conoscevano però una parola latina, di cui peraltro ignoravano il significato. Una sola, passata indenne attraverso i millenni, senza una storpiatura, una sbavatura, un errore di pronuncia. Sempre e solo per tradizione orale, senza mai un passaggio scritto. Giunta alla bocca di braccianti analfabeti integra e cristallina come lo stesso Cicerone l’avrebbe pronunciata: quello squillante “Prosit!”. Perché è una parola sacra. Perché in essa è racchiuso e conservato il senso più profondo della trascendenza. È un gesto apotropaico, un augurio, una dichiarazione di amore, un richiamo alla tradizione, un appello di appartenenza e di identità, un abbraccio alla terra e ai suoi frutti e agli uomini tutti.
Il significato di “Prosit” è piano, pulito, esatto: «che giovi! Che porti bene».
Un augurio che affonda le sue radici in usanze sacre che si perdono nella notte dei tempi - da quando gli uomini iniziarono a offrire sacrifici alle divinità. Un augurio che ha l'elegante forza del con- giuntivo - modo padre di ogni speranza. Un augurio insieme leggero e serio, simbolo di una cultura pervasiva, in cui gesti apparentemente profani (bere del vino, mietere, affilare) erano invece sacri, una cultura che non veniva mai meno.
E se il “Prosit!” apriva il rito, il versamento delle gocce di vino sanguigno sulle zolle lo chiudeva (solo perché si potesse ripetere, ancora e ancora, pochi passi più in là).
I due gesti, uniti, chiudevano il cerchio di una religiosità degli affetti e di Gaia (la Grande Madre), sigillavano l’augurio del “Prosit!” in un contratto con la terra e con le forze della natura vincolato da una firma di sangue; perché il vino rosso questo è: sangue dell’uomo e della sua fatica, sangue della natura e dei suoi frutti migliori, sangue del divino (“prendetene e bevetene tutti, questo è il mio sangue”).

Ripenso a quella piccola, privata eucarestia e non ci vedo fede. C’è religiosità, rispetto dei simboli e delle parole (che sono simboli per eccellenza), c’è una infinita e indefinita trascendenza (una trascendenza necessaria e indispensabile più che cercata, appresa o desiderata), c’è una comprensione delle cose che non è fede ma neanche scientismo o mancanza di fede.
Cose diverse dalla fede. Quegli stessi contadini la domenica andavano a messa e vivevano, spesso con intensità, la loro fede. Cristiana, cattolica.
Una fede sociale, civile, mediata da uomini, istituzioni e da una qualche regola di convenienza. Quegli stessi uomini, forse senza neanche saperlo, conservavano nel più profondo del loro cuore un sentimento più antico, “ancestrale”, insopprimibile, non mediato, indispensabile.
Forse… Forse il massone non è solo l’ultimo erede e l’ultimo custode della gloriosa tradizione muratoria; forse in lui vive ogni giorno la più nobile e la più antica di tutte le fedi: quella che ha trasformato uno stupido primate ateo in un essere senziente, capace di comprendere la vita e la morte, il bene e il male, il divino e il profano.

F. A. 

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