Questo contributo non vuole offrire una panoramica dotta e approfondita dell’arte del Novecento, ma rappresenta esclusivamente il frutto di un rapido sguardo alle espressioni più significative della pittura contemporanea, dal secondo Dopoguerra a oggi. E lo scopo di questo testo è cercare una chiave per comprendere alcuni valori fondamentali dell’individuo, valori che poi muovono, attraverso fili invisibili, le dinamiche storiche collettive.
Se appare utopico parlare di verità da raggiungere, pare però esatto evidenziare quanto già sostenevano i rosacruciani, ossia che la scienza è l’ombra proiettata dell’intuizione. In altre parole, solo con l’intuizione si può raggiungere la vera essenza delle cose.
E chi meglio di un artista esercita in modo raffinato ed esclusivo questo strumento di conoscenza? Artura Schwartz afferma addirittura che l’opera d’arte rientra nella sfera alchemica poiché determina, sia nell’artista che nel suo prodotto, una trasformazione del visibile in qualcosa di sublime, che si avvicina alla realtà invisibile e creatrice.
Attraverso l’intuizione il filosofo, il musicista, lo scultore, il pittore percepiscono, magari involontariamente o inconsciamente, quei dati inafferrabili dalla pura ragione o, comunque, da menti applicate nel mondo profano ad altre operazioni. A un critico che gli chiedeva quali fossero i suoi ideali ispiratori, Migneco rispose: “Esprimo quel che capisco del mondo (e cioè ciò che sento, vedo e immagino), nella maniera più semplice e immediata, con i mezzi di cui il mio mestiere dispone”.
E l’idea di poter trovare una chiave di lettura del mio futuro nell’evoluzione dell’arte a me più vicina (quella pittorica) mi venne osservando i paesaggi urbani di Sironi: da quei quadri, dipinti in pieno Futurismo, si percepisce immediatamente una chiaroveggenza, forse non pensata dal pittore, e cioè che l’industrialismo e il connesso consumismo edonistico sarebbero stati i fattori più potenti di corrosione e di devitalizzazione dell’ambiente dell’uomo nei decenni a venire.
Vediamo quindi quali sviluppi ha avuto la pittura a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ebbene, possiamo subito rilevare che la produzione artistica si è sviluppata in molteplici e diverse direzioni: tuttavia dall’esame dei numerosi movimenti mi pare che si possa recuperare un unico quadro complessivo.
Liberi ormai completamente da ogni esigenza raffigurativa grazie ai progressi dell’arte fotografica e desiderosi di esprimere il risentimento morale e costruttivo di una generazione uscita dalla guerra, molti artisti cercarono un linguaggio che permettesse un equilibrato rapporto fra la lettura naturalistica della realtà e possibili avventure formali.
Tra i movimenti più rilevanti che cercarono tale tipo di linguaggio vi fu quello definito come post cubismo, ossia quel movimento che, riprendendo la tipica scomposizione delle immagini in una serie di piani allineati ma riferibili a diverse orientazioni, riproponeva stilizzazioni geometriche più semplici.
Il post cubismo (che vide, tra gli artisti italiani, Guttuso, Afro, Pizzinato, Birolli, Turcato e Vedova) prese peraltro ben presto due differenti strade: alcuni artisti, infatti, incominciarono a dare alla lettura naturalistica colori e segni accentuati e violenti, sempre restando nell’ambito figurativo, con una chiave di fondo legata all’impegno sociale; altri, invece, incominciarono rapidamente a svincolarsi dal dato naturalistico proponendo stilizzazioni sempre più astratte.
La prima tendenza si ritrova nel c.d. Realismo o Realismo sociale che si caratterizzò soprattutto per l’impegno, appunto sociale dei dipinti (Guttuso, Treccani, Pizzinato tra gli altri). Tuttavia, lo stesso Argan ammette che il tentativo di inserire l’arte nella lotta politica della classe operaia fallì clamorosamente.
La seconda tendenza trovò invece una sua prima espressione in quei pittori (come Klee, Kandinsky, Max Bill, Arp, Turcato, Capogrossi) che vennero definiti astratti per l’assenza di riferimenti figurativi nella costruzione del dipinto: sebbene comunque in essi vi siano riferimenti geometrici o una chiara e ritmica organizzazione del dato visivo o percettivo. Non dobbiamo pensare all’astrattismo come solo a una mera avventura formale, ma si tratta di una vera e propria ricerca con la quale esprimere lo stato esistenziale dell’uomo moderno.
Scrive Paul Klee in occasione di un incontro al Bauhaus: “La capacità dell’uomo di spaziare a piacimento con lo spirito nella dimensione terrena e in quella ultraterrena, in antitesi con la sua impotenza fisica, costituisce la tragedia originaria dell’uomo: la tragedia della spiritualità. La conseguenza di questo coesistere d’impotenza corporea e mobilità psichica è la dicotomia dell’essere umano. L’uomo è per metà prigioniero, per metà alato”.
Ma la seconda tendenza trovò anche espressione in un altro importante movimento, quello denominato informale, in cui la pittura non rappresenta alcun fenomeno esterno ma si propone essa stessa come fenomeno, ed è testimonianza di un rapporto diretto, immediato, non pensato e progettato, tra il pittore e la realtà, dove la realtà è quella stessa dei mezzi espressivi manipolati dall’artista. L’arte, che la tradizione culturale aveva posto come forma, si viene a trovare in una società che svaluta la forma e non riconosce più nel linguaggio il modo essenziale della comunicazione tra gli uomini. Avviene in tal modo una rivoluzione nell’arte pittorica perché al protagonismo della forma si sostituisce quello della materia, non più imprigionata in schemi formali. Al protagonismo del disegno si sostituisce quello del segno, che esprime il gesto immediato dell’artista.
Ricordo che tale rivoluzione avviene negli anni ’50, in pieno clima di esistenzialismo, e segna anche lo spostamento definitivo della capitale mondiale dell’arte: da Parigi, ormai in declino, a New York.
Proprio in questa città, forte dell’arricchimento dato dal surrealismo di pittori immigrati come Breton, Ernst, Dalì, Chagall, l’informale si sviluppò dando maggior peso al gesto piuttosto che alla materia (c.d. Espressionismo astratto o action painting). Ricordiamo, oltre a de Kooning e Kline, anche Pollock, il quale inventò la tecnica del c.d. dripping, e cioè la pittura sgocciolata dall’alto su tela, con gesti quasi rituali. E proprio con tale gestualità la pittura non doveva esprimere concetti, ma solo sfogare l’ira dell’artista nei confronti della società del progetto, della pianificazione.
In Europa prevalse invece l’informale di materia: pensiamo a Burri, famoso per i suoi sacchi di tela grezza nonché a Fontana, con le sue tele tagliate.
Durante il boom economico degli anni ’60 l’informale entra in crisi e viene accusato di degenerare in un’accademia dell’angoscia.
La reazione si esprime in un tentativo di ricondurre la creatività a un atto razionale (Colombo, arte programmata) o in un ritorno figurativo impregnato di esistenzialismo (Bacon, Romagnoni, Ferroni, Guerreschi, attraverso la c.d. nuova figurazione) o, ancora, con una vera e propria rivoluzione del linguaggio pittorico (new dada e, soprattutto, pop art).
Il termine pop deriva da popular, dove popolare non fa riferimento a qualche espressione creativa del popolo bensì vuole esprimere la non-creatività della massa, il disagio del singolo individuo nei confronti dell’uniformità della società dei consumi. La novità di questo movimento consiste nell’approccio a un mondo sino ad allora escluso dagli orizzonti della pittura e, se vogliamo, nell’originale contaminazione dei mezzi espressivi. Se infatti la pittura può essere un insieme disordinato di macchie colorate e non deve comunicare un significato ma attende di riceverne uno da chi la guarda, non si vede – per l’artista pop – perché la pittura debba stare si un piano ed esser fatta di colori. Pertanto il famoso letto di Rauschenberg è un vero e proprio letto, sfatto, sudicio e imbrattato di colori.
Dalla pop art esplodono movimenti volti alla ricerca quasi frenetica di nuove tendenze concettuali: Nuova astrazione, Op art, Iperrealismo, Minimalismo, Arte povera, Body art, Concettualismo, ecc.
Tutte comunque nella scia dell’esperienza pop, e cioè nella condanna dello sfrenato e sempre più raffinato consumismo. Secondo la visione di tali artisti, l’industria scopre infatti che il consumo psicologico è infinitamente più rapido del consumo oggettivo: basta presentare un nuovo tipo di prodotto e subito il precedente diventa obsoleto. Ciò che conta è quindi la novità. Il sistema industriale perderebbe giri se non crescesse continuamente l’ansia del consumo, che quindi costituisce una nevrotica libido, un bisogno di distruggere per esistere.
Per la citata arte povera (tecnologicamente povera in un mondo tecnologicamente ricco) abbiamo addirittura una radicalizzazione del problema perché, per tale movimento, non si dovrebbe neppure realizzare l’opera d’arte poiché questa è oggetto: e in una società consumistica l’oggetto è merce, la merce ricchezza e la ricchezza potere.
Entriamo finalmente negli anni ’80, dove questa corsa frenetica si esaurisce e, come sostiene Flavio Caroli, si assiste a “una reazione generalizzata che porta gli artisti a riprendere in mano tele e pennelli”. Si assiste quindi alla ripresa di modi e tendenza precedenti, una sorta di meditazione sulla tradizione: su tale scia si pongono quei movimenti come la Pittura colta, l’Ipermanierismo e, finalmente, il Postmoderno.
Questa attuale meditazione coincide con una generalizzata crisi di rigetto della filosofia scientifica, dell’estrema e cieca fiducia nel processo tecnologico.
La fiducia nell’onnipotenza della ragione (fondata sulle necessarie dimostrazioni della matematica e nella testimonianza fattuale delle esperienze sensibili) aveva inizialmente anche illuso che l’uomo avrebbe potuto perdere la necessità di Dio.
Parallelamente a questa illusione, l’uomo contemporaneo ha fatto o elaborato scoperte che non hanno precedenti nella storia e che hanno letteralmente sconvolto ogni schema acquisito nei secoli precedenti. Anzitutto l’invenzione e la messa a punto di veicoli sempre più raffinati che hanno permesso lo spostamento di uomini e beni in tempi sempre più ristretti e in luoghi sempre più distanti (addirittura fuori dal nostro pianeta). Poi, e non da ultimo, il collegamento video, che ha permesso la circolazione in tutto il mondo e in tempo reale di idee, progetti, opinioni.
Ma, quasi paradossalmente, proprio il razionalismo vitalistico dell’uomo contemporaneo, il dinamismo dei rapporti sociali, l’efficientismo produttivo hanno fatto emergere con sempre maggior vigore l’inquietudine dell’uomo, la sua incapacità di adattarsi alle strutture artificiali del mondo moderno. Gli errori e i disastri provocati dal progresso tecnologico hanno poi dato l’ultimo scossone.
Non mi è possibile indicare un elenco preciso degli artisti che si ispirano al Postmodernismo perché esso non può trovare una collocazione ben definita, nelle arti figurative così come nella letteratura. Il sentimento postmoderno emerge forse, quasi inavvertitamente, da tutte quelle opere, come quelle di Chiaberti e Portoghesi, che si pongono una riflessione sui valori della tradizione, accantonati negli anni del Dopoguerra fino all’esperienza Pop.
In tale quadro il Postmodernismo vuole innanzitutto sottolineare che la vera modernità comporta la rinuncia a tutta una serie di illusioni: prima di tutto a quella dell’organicità e cioè all’illusione di poter cominciare a cambiare qualcosa e poi cambiare sistematicamente tutto. Come se il mondo potesse obbedire a una regola ben precisa e invariabile. Per il Postmodernismo il mondo lo si trasforma senza invitarlo a seguire modelli astratti e precostituiti, ma piuttosto insinuandosi dentro questi processi e avvicinandoli alle ispirazioni degli uomini.
D’altra parte la modernità, con i suoi miti, i suoi gusti, è il mondo creato su impulso di tre o quattro generazioni passate. E tra gli scopi del Postmodernismo vi è quello quindi di opporsi al congelamento del moderno che, esaurita la sua spinta dinamica, ha finito per cristallizzarsi. Recuperando valori e tradizioni che l’orgia tecnologica aveva ridicolizzato, il Postmodernismo ripropone un rapporto tra passato e mondo contemporaneo basato non sulla mera imitazione ma su una riattualizzazione dei temi storici. Dopo le avventure astratte, informali e pop il Postmodernismo – citando Paolo Portoghesi – “torna indietro paradossalmente per progredire; recupera valori del passato con uno spirito diverso; recupera valori che nella fretta di addentrarci nel futuro abbiamo perduto: il calore di un camino, il sapore del cibo cotto al carbone”.
Dopo le frenetiche ricerche avanguardistiche prima descritte, ritengo che il Postmoderno evidenzi un segnale (o meglio, un’intuizione) molto importante, un segnale che dona nuovamente gioiosa fiducia al nostro avvenire. L’uomo-massa si sta scuotendo per ritrovare il proprio valore come individuo e per scrollarsi di dosso la cappa opprimente di formica-operaia. Non bastano le nuove feste che accompagnano il progresso vertiginoso a zittire quelle insistenti domande che da sempre prorompono in ogni individuo: chi sono io? Perché sono nato? Perché devo rifiutare il mistero se sento che io sono il primo mistero non ancora risolto?
Ciò non significa certo rinnegare il processo tecnologico né aspirare conseguentemente al ritorno, impossibile, di schemi medievali. Significa però dare la giusta dimensione, il giusto valore e il giusto controllo a quel mondo che costituisce e deve costituire solo un mezzo per dare all’uomo una vita più agevole.
Platone commise un errore, quello di non dare alcun peso agli scienziati, relegati dal filosofo al rango dei lavoratori manuali. Noi però non dobbiamo commettere lo sbaglio opposto, e cioè accettare acriticamente l’avvento del loro regno.
Liberamente tratto dall’archivio di Delta (A. N.)