Due storie di qualche anno fa, ma di sapore antico, medioevale. Mamma Ebe, una moderna versione della Monaca di Monza, e lo psicanalista Armando Verdiglione. Le cronache ci presentano una donna che di giovanile ha soltanto una fluente capigliatura, altrimenti un viso arido, scavato, privo di ogni espressione di dolcezza, freddi occhi sotto grandi lenti, e un uomo dall'aspetto di ragazzo con le sue guance piene, occhi ora acuti, ora sorpresi e smarriti. Entrambi, almeno fino a ieri, ricchi o presunti ricchi: denaro, gioielli, pellicce, addirittura uno yacht la prima; un impero immobiliare, una casa editrice, una fondazione, ampia notorietà e consenso nel campo internazionale della cultura lo psicanalista. Un tratto li accomuna: l'uso e lo sfruttamento, a fini di lucro, di individui deboli, malati veri o immaginari, influenzabili, infelici, o semplicemente ingenui. E che hanno avuto il torto di credere in loro. Lasciamo a parte i commenti delle cronache.
Come li possiamo o vogliamo noi giudicare? Disonesti, pazzi, malati, esaltati? La loro psicologia non è lineare. Sono certo in malafede, il lucro lo conferma, sicuramente soffrono di complessi, sono disonesti, cupidi, sadici. Perché ogni tipo di coercizione, sia esso fisico o morale, è sadismo. Ci sorprende (ma forse non troppo) che abbiano potuto agire così a lungo, impunemente, in un mondo come l'attuale, inondato dall'informazione e dalla denuncia. Hanno certo avuto come complici le loro stesse vittime, tanto è grande il potere dell'illusione, che fa intravvedere la conquista del paradiso, la salvezza dell'anima, la salute fisica e mentale come premio di sofferenze e rinunce terrene. E più ancora ci sorprende, se non lo si spiega con una totale povertà di spirito, che persone, suore in questo caso, si siano assoggettate a leccare pavimenti, a vegliare notti intere dopo sedici diciotto ore di lavoro, a mangiare in ginocchio, a subire frustate. Forse un senso di solitudine può indurre degli infelici a preferire qualsiasi sacrificio, a sopportare qualsiasi sofferenza pur di avere l'illusione che qualcuno pensi a loro e diriga la loro vita.
Il vizio della cupidigia è vecchio come il mondo. Ma è diventato un male predominante nel nostro secolo, così avido e materialista. Alcune storie salgono agli onori della cronaca, ma quante altre se ne potrebbero citare, a cui spesso si assiste con animo distratto, o consumate fra le pareti di abitazioni o di manicomi. Soprusi, raggiri, astuzie, maliziose e tragiche complicità. Circonvenzione di presunti incapaci, falsi ricoveri, firme estorte con la complicità di insospettabili e stimati uomini di legge.
Il triste quadro si potrebbe ampliare all'infinito, con lo sfruttamento di bambini, la diffusione di micidiali droghe, alle guerre cosiddette di colonizzazione, e ancora malversazioni e intrallazzi nel campo finanziario e industriale. Proclamando ideali, facendo promesse senza alcuna intenzione di mantenerle, si vuole soltanto carpire ricchezza, che significa lustro, potenza e che oggi più che mai sostituisce dignità e intelligenza.
La cupidigia è un vizio inquinante, perché riesce a mimetizzarsi perché è entrato nel nostro costume e sistema di vita, ampiamente tollerato, spesso ammirato e invidiato.
L'antidoto è il ritorno ai veri valori della vita, una presa di coscienza. Rispetto della dignità umana, rispetto degli uomini e delle cose, delle loro cose, rispetto della proprietà come conquista legittima e non furto e sopraffazione. Soprattutto la certezza che, anche se si possiede meno, in questo caso significa avere infinitamente di più.