Perché difendere lo studio dell'età classica

Perché difendere lo studio dell'età classica

“Civiltà sepolte” e attualità della “Tradizione”. Un progetto allarmante e i motivi del suo rifiuto

Non abbiamo bisogno di spendere parole sull’importanza dell’intitolazione di istituzioni pubbliche e associazioni private. Il “nome distintivo” ha sempre avuto ripercussioni decisive sul tenore della condotta di quanti l’hanno scelto o ereditato per propria insegna. Di fondamentale rilievo nella tradizione militare – che l’ha rivestita di una moltitudine di emblemi e colori, come vengono ripetendo gli eccellenti saggi di araldica militare e vessillografia pubblicati dal Gen. Oreste Bovio – sin dalla più remota antichità la dedica dei reparti armati ha trovato emulazione in quella di chiese, istituzioni religiose, corporazioni e, naturalmente, ha assunto forza e vigore nell’universo massonico, anche a tal riguardo ertosi a sintesi medianica delle diverse tradizioni durate nella storia umana.

 

 

Usi a percorrere i repertori dei nomi distintivi delle Officine dei disparati Paesi, siamo soliti dedicare altrettanta attenzione a quelli delle scuole pubbliche, di quando in quando elencati nei “Bollettini ufficiali” del Ministero della Pubblica Istruzione. Attraverso quei nomi è possibile cogliere le pulsioni più profonde e i segni più rivelatori del complesso organismo della Scuola italiana. Tra gli ultimi venutici a mano possiamo constatare che nel 1984 su 48 scuole medie di nuova denominazione la maggior parte s’è data per insegna un personaggio del Novecento, della letteratura, della politica e persino della cronaca: Grazia Deledda, Gabriele D’Annunzio, Salvatore Quasimodo, Albert Einstein, Guglielmo Marconi, Alfonso Gatto, Ettore Petrolini, Enrico Galvaligi, Emanuela Setti Carraro Dalla Chiesa, Aldo Moro… rare sono invece le scelte di uomini dell’Ottocento; pressoché inesistenti i riferimenti all’età moderna e medievale e una sola, reiterata più volte, l’eco dell’età classica, a beneficio di Publio Virgilio Marone, con il quale però pareggia Padre Pio da Pietralcina (cui è intitolata la Media di Saline Ioniche). Dall’ultimo elenco analizzato, riguardante il 1986, accanto alla solita pletora di contemporanei (il ricorrente Don Lorenzo Milani, Gianni Rodari – ridondante nell’intitolazione di scuole elementari – Antonio Ligabue…), va segnalato il ritorno di due rinascimentali (Raffaello Sanzio e Leonardo da Vinci), pareggiati però dal Fratello Antonio de Curtis, più noto come Totò e, nuovamente, da Padre Pio (media di Cerignola). Quanto all’età classica, zero assoluto. E questo sta perfettamente in linea con l’espulsione di una seria conoscenza dell’antichità dalla scuola dell’obbligo, sicché lo stesso Virgilio vien certo ricordato solo quale compagno di Dante in un oltretomba tutto di segno cristiano. In assenza di intitolazioni di nuovi licei classici, una verifica della mentalità trasparente dalla scelta dei nomi distintivi può essere cercata nei repertori riguardanti gli istituti tecnici. Nel 1984, su 18 nuove scuole di tale ordine, accanto a Ettore Majorana, Raffaele Mattioli, Tommaso Fiore, Enrico Fermi, Enrico Mattei e Guglielmo Marconi, solo a Bari e a Brindisi si ritenne di proporre personaggi d’altri tempi: rispettivamente Euclide e Marco Lenio Flacco. Davvero poco quale specchio della “lunga durata” che dovrebbe ispirare la cultura scientifica e tecnica non meno della classica: entrambe unificandosi nell’Umanesimo. Né le cose migliorarono negli anni seguenti. Nel repertorio delle dieci intitolazioni del 1985, accanto a Raffaele Mattioli e Gaetano Salvemini, a Gaetano Filangieri (ma ne conoscevano la qualità di iniziato i proponenti?), all’ottimistica “Europa Unita” e al lugubre “Caduti della Direttissima”, invano si cercherebbe un qualche riferimento all’età classica, a figure di valore davvero universale. La miopia culturale – evidenziata dalla brevità dell’arco cronologico entro il quale sono stati individuati i nomi dei dedicatari di Istituzioni scolastiche – s’è manifestamente accentuata da quando, con decisione a nostro avviso profondamente discutibile, la scelta delle intitolazioni è stata demandata ai consigli di istituto,

vale a dire a un organo amministrativo, anziché al corpo responsabile delle mete educative e della didattica, cui precedentemente era affidata. Ma il peggio ha da venire. Il ministero, infatti, ha persino stabilito che i consigli di istituto possono modificare le intitolazioni non più rispondenti al (come dire?) gusto (o pregiudizio ideologico? o prevalenza partitica?). Com’è noto – muovendo dal ragionevole presupposto che ai futuri licenziandi della scuola dell’obbligo non si può certo consegnare quale estremo orizzonte storico la caduta dell’Impero romano o l’avvento di quello carolingio – il progetto ministeriale stabilisce che nel biennio superiore lo studio della storia riguardi l’età contemporanea con divagazioni per vasti campi della sociologia. In breve, l’età classica viene del tutto recisa dalla coscienza storica nazionale, giacché è altrettanto ragionevole supporre che nel triennio superiore gli studenti s’occuperanno di medioevo e, soprattutto, di età moderna e contemporanea. Siamo anzi fra quanti ritengono necessario riservare all’ultimo anno il solo Novecento. Pochi hanno però colto a fondo il rischio che va correndo la formazione intellettuale delle future generazioni qualora venisse attuato il disegno ministeriale; perciò riteniamo d’insistervi. Da un canto – è chiaro – l’orizzonte storico verrà fatto coincidere con l’avvento del cristianesimo quale unico pilastro civile sopravvissuto all’impero romano: e ciò in un sistema scolastico tendente a identificare il cristianesimo col cattolicesimo della Curia romana. Poco monta – a quanto pare – che, reciso dalle sue premesse ebraiche e dal millenario confronto instaurato dai suoi migliori esponenti con Platone, Aristotele, gli stoici, il cristianesimo stesso risulterà impoverito e pressoché incomprensibile. L’importante – a quanto pare – è ridurre l’età classica ad ammasso di relitti, a reliquia museale, da visitare per sfizio ma senza vero intento né possibilità di comprensione. E si spiega, quindi, l’indignazione degli ultimi assertori di una tradizione italica, affondante radici nel mondo romano o, più esplicitamente, nella Roma “pagana”. V’è però altro ancora. “Età classica” nello studio scolastico non significa(va) solo Grecia e Roma, bensì – almeno come aspirazione – studio delle civiltà orientali (Egizi, Babilonesi, Ebrei, Ittiti, iranici, indiani…): non “civiltà scomparse”, bensì premessa e alimento perenne per le età successive (sarebbero mai comprensibili l’Ottocento di Schopenhauer e Nietzsche senza l’India antica o Mozart senza la rifioritura egizia precedente la stessa spedizione napoleonica del 1798?). Età classica significa(va) insomma coscienza della molteplicità della civiltà e, al tempo stesso, della circolarità dello spirito umano, capace di attingere – o almeno di cercare – la verità muovendo dalle più disparate basi locali e temporali. Proprio la maggior ricchezza culturale conquistata dal plurisecolare confronto con quelle orientali consentì ai migliori fra gli Occidentali di spingere più oltre lo sguardo – Cina, Giappone, popoli dell’Asia sud-orientale -, riconoscendo infine uguale dignità alle civiltà precolombiane (Aztechi, Maya, Incas… che tuttavia ancora stentano a entrare nella manualistica scolastica) e, ancora, alle culture africane, australi e di mondi non più considerati da rinserrare in riserve per svaghi turistici o per pubblicazioni dottorali ma nei quali cercare il segno, l’espressione della perenne umanità. Orbene, proprio mentre la cultura occidentale – informata dagl’immortali principi della tolleranza e della libertà – è finalmente approdata alla coscienza dell’’unitarietà degli uomini, dell’effettiva fratellanza universale e può farsene maestra nei rispetti di tutte le genti, la scuola italiana rischia di soggiacere a un provvedimento le cui conseguenze, ove venisse attuata la proposta ministeriale nei termini di recente formulazione, si ripercuoterebbero con esiti catastrofici per molte e molte generazioni, da un canto sradicate dalla propria storia, dall’altro, rinchiuse in un ghetto monoculturale, sicuramente foriero di presunzione, dogmatismo e intolleranza. Tanto è elevato il rischio incombente – molto oltre, dunque, il segno sul quale s’è sviluppata la disputa pro e contro la sola cultura classica -, altrettanto netta dev’essere la individuazione delle ragioni profonde che debbono far rifiutare, senza tentennamenti, la proposta ministeriale: non per motivi di parte, che qui non interessano affatto e dei quali mai ci faremmo eco o tramite in questa sede, bensì in nome del beethoveniano “siate abbracciati, o milioni!”, contraddetto e umiliato dalla decisione di chiudere lo studio

superiore della storia in steccati inaccettabili. La controversia a nostro avviso non riguarda e non può essere circoscritta nei termini, semplicistici e tuttavia sinora prevalsi, del privilegiamento dell’una o dell’altra epoca storica: essa investe l’educazione a comprendere e a rispettare l’autonomia delle culture e, dunque, non tanto a rovistare tra le civiltà sepolte, quanto a coesistere con quelle tuttora presenti e vive, ma talora costrette, se non alla totale clandestinità cui le condannano i totalitarismi, almeno a ripararsi nel riserbo. Attraverso la scoperta della pluralità delle culture vissute nel tempo, lo studio dell’età classica educa(va) al rispetto delle minoranze; in questo senso era fondamentalmente scuola di libertà. E quanti sanno di non essere in maggioranza, di non essere massa, non possono quindi assistere indifferenti alla liquidazione del modello culturale e didattico che per molte generazioni instillò, a cominciare dai ceti più colti, filtrati dalle medie superiori, il gusto (talvolta persino l’orgoglio) dell’essere e sapersi “minoranza”, dell’essere e sapersi esponenti delle tradizioni che arrivano di lontano e durano attraverso il tempo, custodi di un patrimonio sapienziale che non si lascia ridurre al groppo di cognizioni utili per il presente di ciascuna età, cultori di stili e di pensiero che accettano con serena consapevolezza la propria marginalità rispetto allo stesso potere organizzato, fiduciosi che i suoi detentori a loro volta non ignorano la necessità che esistano culture non pienamente identificate con il presente e a quel modo capaci di fare da perenne riserva per sempre nuove future ri-creazioni dell’umanità. Quale rispetto di sé tali culture potranno attendersi da una società (dis)educata in un sistema monoculturale, nel quale il senso del tempo e delle distinzioni è soppiantato dalle divagazioni nei territori di una malintesa sociologia e di una sedicente raccogliticcia pseudo-antropologia? (al riguardo dobbiamo anzi precisare che proprio il mancato approdo all’antropologia culturale da parte dei pretesi nuovi programmi scolastici costituisce motivo di speciale allarme). V’è dunque motivo di intervenire con chiarezza perché sono in gioco le sorti del modello culturale asceso e affermatosi con l’avvento della Massoneria speculativa. Una volta di più la battaglia per le libertà viene a identificarsi con quella per gli ideali manifestati e concretamente professati dai Liberi Muratori. V’è dunque motivo di farsi sentire, con pacatezza, ma con altrettanta fermezza, anzitutto per far intendere a chi deve che il suo disegno non è affatto ignoto e che non ci sfuggono i possibili sbocchi della sua linea d’azione; e, in secondo luogo, per portare il confronto sul terreno autentico: non la mera ripartizione della storia in sezioni temporali diversificate e artificiosamente separate e contrapposte, bensì la difesa della libertà e unitarietà dello spirito umano, nelle sue manifestazioni storiche e attuali, senza discriminazioni né censure o recisioni, né etnocidi consumati a freddo, nella formulazione dei programmi e nella confezione dei manuali a essi congruenti. Su tale terreno riteniamo urgente chiamare a raccolta e far quadrato in difesa della Tradizione e del suo diritto a non lasciarsi raschiar via, nel presente, da quanti fanno intravvedere l’orizzonte verso il quale si muovono intitolando istituzioni scolastiche non già ai giganti del pensiero ma ai più discussi esponenti della superstizione popolare.

di Aldo Mola

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