Con questo articolo, chi scrive vuole dare il via ad un cammino di “archeologia misterica” che toccherà varie tappe nel tempo e nello spazio, alla ricerca di quei legami, a volte evidenti, altre nascosti, fra i siti più emblematici dell’antichità ed un passato mitico, ma non per questo irreale, dell’umanità.
Il punto di partenza di questo viaggio ascensionale verso la conoscenza e il riscatto dall’oblio si trova nel ventre della Terra, dove nessun’altra opera dell’ingegno umano nei millenni passati si era mai spinta: Derinkuyu.
Ci troviamo in Cappadocia, regione della Turchia, famosa per le sue città sotterranee, rinvenute a partire dagli anni ‘60. Alcune sono state completamente esplorate, messe in sicurezza e visitabili, altre sono ancora in fase di scoperta o non agibili, per cui è difficile fare una stima precisa di quante esse siano, sebbene il numero superi la trentina.
Fra le più famose, e fruibili dai turisti, possiamo citare Kaymakli, Ozkonak e, appunto, Derinkuyu. Quest’ultima desta la meraviglia di archeologi e visitatori per via delle sue dimensioni e perizia costruttiva. Essa si presenta, infatti, come un complesso labirintico di tunnel e stanze scavati nella roccia vulcanica che si estende su otto livelli sotterranei e raggiunge una profondità di 85 metri sotto il livello del suolo. Si stima che la città possa aver ospitato fino a 20.000 persone, insieme ai loro animali domestici e alle riserve alimentari.
L'ingresso principale è collocato al centro della moderna Derinkuyu, dove si può trovare una grande piazza con una struttura in pietra che copre l'accesso alla città sotterranea. L'ingresso conduce a un lungo tunnel in discesa che porta al primo livello del complesso ipogeo. I visitatori possono esplorare sette dei livelli sottostanti, mentre l'ottavo rimane chiuso per motivi di sicurezza.
All'interno della città sotterranea, si possono ammirare diverse strutture e ambienti destinati ad uso domestico e comunitario o alla cura del corpo e la soddisfazione dei bisogni fisiologici, come orinatoi e bagni. Ci sono stanze adibite a cucina, depositi di cibo, ambienti per la produzione di olio e di vino, cantine, stalle per gli animali, aree di coltivazione e un sistema di canalizzazione delle acque. È possibile rinvenire, infine, locali destinati a dormitorio e persino una chiesa sotterranea, che testimonia la fede cristiana degli abitanti della regione in epoche successive a quella della sua realizzazione.
Due delle caratteristiche più interessanti del complesso ipogeo sono il sistema di prese d'aria, costituito da una serie di pozzi di ventilazione che si estendevano fino alla superficie e che permetteva all'aria fresca di entrare nei livelli sottostanti, e le porte girevoli, costituite da grandi pietre circolari che potevano essere fatte rotolare per bloccare gli accessi ai tunnel.
La visita a Derinkuyu dura circa un’ora e mezza e si svolge in gruppi di 20-30 persone. Durante il percorso, gli ospiti possono ammirare anche alcune mostre ed esposizioni che illustrano la storia e la cultura della regione. È importante notare, però, che la discesa nel complesso sotterraneo richiede una certa attenzione e prudenza, in quanto, oltre a dover camminare per lunghi periodi in spazi ristretti e con scarsa illuminazione, alcuni passaggi ripidi, a causa della presenza di acqua e di umidità, potrebbero risultare piuttosto scivolosi e potenzialmente pericolosi.
Fin qui si è detto sul “dove” e “cosa” è Derinkuyu, ma altri scottanti interrogativi rimangono irrisolti dall’archeologia accademica. Mi riferisco al “quando”, “come” e “perché” una simile mastodontica opera di scavi e ingegneria edile sia stata portata avanti da popolazioni che, a detta degli studiosi ortodossi, nel 3.000 a.C., epoca in cui si presume sia stata realizzata, utilizzavano solo attrezzi in pietra o, alla meglio, in rame. Il ferro, infatti, è ben lungi dall’affacciarsi alle porte della storia. Sul motivo per cui un’intera comunità - considerando solo Derinkuyu, ma non va dimenticato che la Cappadocia è piena di strutture similari - abbia dovuto mettersi a lavoro, presumibilmente per anni, con i miseri attrezzi di cui disponeva, dimostrando, peraltro, una perizia costruttiva che farebbe invidia a moderni progettisti, vi è ancora dissenso. L’idea che tali luoghi fossero dei rifugi è decisamente plausibile, ma che lo fossero dalle invasioni e scorribande di popoli nemici lo è meno. La storia, infatti, ci insegna che quando una comunità voleva difendersi da assalti esterni sceglieva un luogo posizionato su di un’altura, per poter meglio osservare il territorio e respingere il nemico, e non una tana in cui infrattarsi, con il rischio di rimanervi intrappolata e fare la “fine del topo”.
Ma, allora, da chi o da cosa gli antichi popoli della Cappadocia volevano trovare scampo? Una risposta potrebbe giungerci da un mito locale che racconta del pastore Hyrokanos, il quale, mentre era intento a pascolare il suo gregge, notò un coniglio scomparire in una fenditura nel terreno. Incuriosito, decise di esplorare l'apertura e scoprì un complesso sistema di tunnel sotterranei. In uno dei corridoi, incontrò un vecchio uomo che gli spiegò che le gallerie erano state scavate in previsione di un grande cataclisma, il cui arrivo era imminente. L'uomo gli chiese di portare la notizia del rifugio ad altre persone e di costruirne di nuovi per far fronte alla catastrofe. Secondo la leggenda, il pastorello seguì le istruzioni dell'uomo. In questo modo, molte persone furono salvate durante il diluvio che arrivò poco dopo.
Alcune fonti identificano l'uomo che incontrò Hyrokanos con un angelo, mentre altre lo considerano un saggio o un profeta. Chi scrive abbraccia l’idea che nel mito siano raccontati fatti realmente accaduti, non compresi o erroneamente interpretati dall’uomo contemporaneo, restio a credere in un passato più antico di quello finora a torto ipotizzato, e che la fantomatica figura fosse un esponente di una civiltà, o di una casta, superiore, la quale disponeva di elevate conoscenze scientifiche e tecnologiche.
Una tale società progredita, esistente sul pianeta in epoche antidiluviane, appare sempre più evidente con l’avanzamento delle scoperte archeologiche e con l’approccio multidisciplinare a reami del sapere che fino a non molto tempo fa erano ad appannaggio di “blindate” élite accademiche, ma che al giorno d’oggi, sempre più frequentemente, si tramutano in un armonioso gioco di vasi comunicanti in cui le informazioni fluiscono da un dominio di competenze all’altro, in un clima di condivisione e reciproco arricchimento.
Se il mondo scientifico saprà tendere verso questa utopia, riuscirà e disvelare non solo l’arcano di Derinkuyu, ma anche i forse più noti e affascinanti misteri legati alla costruzione e alla funzione delle piramidi di Giza o all’origine comune delle civiltà megalitiche sparse per tutto il globo. La mia penna è al servizio di questo ideale e non mancherà di tornare sull’argomento.
Riguardo a Derinkuyu, in conclusione, nonostante non ci siano risposte definitive agli interrogativi prima esposti, si può senza dubbio affermare che rappresenti un'opera straordinaria dell’ingegno, nonché un portale sul nostro lontano passato che non aspetta altro di essere varcato dall’uomo contemporaneo, oggi più che mai alla ricerca di una profonda e autentica conoscenza di sé e delle proprie origini.
ArcheoMysterium