Il simbolismo iniziatico in Hermann Hesse

Il simbolismo iniziatico in Hermann Hesse

Tutta l’opera di Hermann Hesse, autore prolifico e poliedrico, si basa su alcuni pilastri ricorrenti. Su tutti, il tema della ricerca e dell’emancipazione.
La ricerca è quel moto perenne in cui l’uomo buono, curioso e libero deve potersi costantemente ritrovare e riconoscere; l’emancipazione è la naturale conseguenza di questo cammino, da intendersi non come traguardo ben definito, giacché mai l’uomo potrà arrivare alla perfezione ideale, ma come una serie di passi, di gradini, che via via lo condurranno verso una piena coscienza di sé. Quindi emancipazione, anzitutto, dai propri limiti.
Sono moltissimi i personaggi e le storie che evocano questi princìpi; in ogni suo scritto, anche il più breve dei racconti, è presente almeno una traccia di questo desiderio irrefrenabile di crescita, libero peraltro da ogni sorta di infrastrutture o dogmi che possano condizionarne in qualsiasi modo gli esiti. Pensiamo all’Emil Sinclair nel Demian: egli è alla ricerca di Abraxas, divinità che racchiude in sé Dio e Demonio, che evoca il dualismo e il conflitto che da esso inevitabilmente sprigiona.
La risoluzione del dualismo che sottende a ogni esperienza di vita terrena soggetta alle leggi del Quaternario, però, non avviene attraverso una lotta serrata dalla quale uno dei due contendenti uscirà vincitore e l’altro sconfitto; ma, accettando che ciascuno contiene in sé una parte dell’altro, il tutto si risolve in una pacifica convivenza nella diversità.

 

 

Dualismo e armonia: ogni cammino è sempre un ritorno

Ecco perché proprio Abraxas.
Ed ecco perché è più corretto parlare di emancipazione e non di superamento del conflitto. Elevandosi al di sopra della contesa, l’uomo può arrivare a comprendere come tutto sia indispensabile alla composizione della giusta armonia.
Ogni nuova esistenza individuale nasce, rinasce varie volte e prende consapevolezza proprio a causa di un moto dissonante rispetto all’armonia del mondo così come lo conosciamo e osserviamo; una naturale e inevitabile deviazione dal corso principale degli eventi e dal suo fluire. Si potrebbe definire come una sorta di peccato originale esoterico e non più dogmatico, per redimersi dal quale l’uomo – iniziato o saggio che sia – deve impiegare tutte le proprie energie; è ricercando l’armonia perduta che contribuiamo a ricrearla.
Il cammino non è altro che un ritorno. Tuttavia, anche in questo caso, la corretta chiave di lettura non è la consueta lotta tra il bene e il male, ma un delicato gioco di equilibri tra Ananke e Chaos. Sembra un passaggio sottile, quasi specioso, in realtà è proprio su questa piccola differenza che si costruisce la grandezza dell’opera di Hesse.
Il primo passo, il più importante, che l’autore compie nel suo cammino verso la risoluzione del dualismo, attraverso l’esercizio mimetico della sua scrittura e dei suoi personaggi, è il rifiuto del giudizio etico (in linea con la cultura orientale, in particolare indiana, da lui così tanto amata e studiata); tutto questo nonostante egli fosse cresciuto in un ambiente familiare rigidamente religioso, di tipo pietista, in cui gli veniva inculcata una visione totalizzante di bene e male, come se ogni sfaccettatura del mondo sensibile dovesse essere inquadrata nell’una o nell’altra categoria e, conseguentemente, imitata o combattuta.
Tale rifiuto del conflitto, questo desiderio costante di elevarsi al di sopra di esso, pone Hesse in una posizione pressoché unica nel panorama tedesco ed europeo di inizio Novecento, periodo caratterizzato invece da un irrefrenabile fermento di guerra che neanche il primo conflitto mondiale sarà in grado di sopire.
Un’altra declinazione di questa dualità è il tema del doppio, di certo ricorrente in moltissima letteratura ma, anche in questo caso, affrontato dall’autore con modalità del tutto personali. La contrapposizione di riferimento è quella tra vita attiva e vita contemplativa, e i riferimenti nelle sue opere sono molteplici. Si pensi anzitutto alla personalità di Harry Haller, alter ego di Hesse e protagonista de Il lupo della steppa; ma anche a Narciso e Boccadoro, a Demian e Sinclair, Siddharta e Kamala (affascinante cortigiana), ancora Siddharta e Kamaswami (facoltoso mercante), e a Josef Knecht de Il giuoco delle perle di vetro, alle prese con le intricate dinamiche dei rapporti tra maestro e discente.
Hesse parla attraverso i suoi personaggi e le loro personalità, tutte sfaccettature della propria; racconta storie in grado di accompagnare il lettore nel proprio cammino.
Si è già accennato al suo amore per l’Oriente. È bene specificare però che, nonostante questa sua grande passione sia stata certamente fonte d’ispirazione (e non soltanto nel famosissimo romanzo Siddharta), Hesse mantiene la giusta distanza da quelle posizioni che oggi verrebbero definite new age: non rinnega il valore del proprio retaggio culturale e sociale (peraltro presente anche in molti dei suoi scritti, dove sono spesso riconoscibili luoghi a lui molto cari), così profondamente occidentale. Così facendo, prende le distanze da tutti quei movimenti pseudofilosofici che vogliono generare una rottura, un distacco totale dalla cultura dei padri. Anche qui, l’autore fa mostra delle sue capacità di emanciparsi da un conflitto anziché inoltrarvisi.

Wanderlust: una tradizione rivisitata

Il tema del viandante affonda le sue radici nelle profondità della tradizione letteraria tedesca e anche Hesse, seppur in maniera atipica, ha trattato l’argomento.
Ma chi è il viandante? Colui il quale, grazie al suo sguardo obliquo, si apre un varco nell’establishment borghese in cerca di una nuova via, un nuovo punto di vista, nuovi valori. La sua visione pionieristica, attraverso il disordine generato dalla rottura, condurrà a una nuova forma di ordine.
Forse il viandante più famoso della letteratura è il Perdigiorno di Von Eichendorff. Romantico sognatore, disobbedisce ai genitori e, un giorno, decide di lasciarsi la vecchia vita alle spalle e parte, in compagnia del suo violino.
Sono moltissimi i punti in comune con l’opera di Hesse, non ultimo il ruolo, centrale, della musica (si pensi al Lupo della steppa e all’importanza, nella storia, del fox trot), non come espediente narrativo ma come vero e proprio strumento a disposizione del personaggio (e, quindi, grazie alla mimesi letteraria, anche dell’autore e del lettore) durante il proprio cammino di perfezionamento.
Tuttavia, a differenza di Eichendorff, il viandante di Hesse non si avventura per boschi e villaggi sconosciuti né raggiunge lontani paesi stranieri, ma esplora le più oscure profondità di sé stesso, alla ricerca di quell’ultimo bagliore di coscienza non ancora avvelenata dalla vita borghese.
Hesse ha dematerializzato il viaggio, rendendolo perfettamente iniziatico, perché libero dai vincoli materiali. Ha fatto sue le migliori tradizioni letterarie per poi trasformarle in un cammino simbolico e, per questo, universale.
Ecco perché, ancora oggi, la sua opera è così preziosa. La sua scrittura è evocativa, onirica seppur aderente a una visione coerente di realtà. La magia si rivela nel sapiente uso del dionisiaco come strumento per comprendere l’apollineo: è qui che si nasconde la via che il viandante riuscirà a scoprire e a percorrere. Il suo viaggio senza tempo è il viaggio di ciascuno di noi.

Il giuoco delle perle di vetro: il Magister Hermann e la sua eredità spirituale

L’ultimo grande romanzo di Hesse è, forse, il più criptico e misterioso (ossia, nel senso strettamente etimologico del termine, segreto); di certo è quello dove emerge con più forza l’aspetto pedagogico-iniziatico. Un’istruzione superiore e trascendente, che però non vuole essere asettico indottrinamento nozionistico ma aiuto e conforto nel cammino della vita, unico e irripetibile per ciascuno di noi. Nel testo sono frequenti i riferimenti a esperienze esoterico: l’utopica comunità di Castalia è organizzata rigidamente in una gerarchia basata sulla forza della conoscenza, non su quella della prevaricazione violenta; sull’autorevolezza, non sull’autorità.
Investire la conoscenza di un ruolo soteriologico è tipico di qualsiasi tipo di percorso iniziatico, ed è il fondamento su cui è costruita l’intera opera.
Il protagonista, Josef Knecht (da notare che il termine in tedesco significa “servo”), imparerà presto che soltanto dal rispetto delle regole potrà generarsi l’immaginazione necessaria a cimentarsi nel gioco.
Ma qual è lo scopo del gioco? Nient’altro che crescere.
Attraverso lo studio del gioco, il giocatore raggiungerà la maturità necessaria a divenire, un giorno, maestro. La morte esemplare di Knecht, nella scena finale, è l’iniziazione esemplare per il giovane discepolo.
La scelta del lago non è casuale: l’acqua è l’elemento primordiale, punto di origine e pertanto luogo deputato al ritorno. “Di fatto il tuffo fa rivivere, più di ogni altro avvenimento fisico, gli echi dell’iniziazione pericolosa, di una iniziazione ostile. Non esistono altri salti reali che siano nell’ignoto. Il salto nell’ignoto è un salto nell’acqua” ci ricorda il filosofo Gaston Bachelard.
Ecco che da questo stesso lago, brodo primordiale, tutti noi dobbiamo essere in grado di riemergere per compiere il nostro cammino, interiorizzando gli insegnamenti ricevuti dal Maestro Hermann per trasformarci a nostra volta in maestri, consapevoli della circolarità dell’esistenza e dell’inesorabilità del ritorno.

A tutti i pellegrini d’Oriente:
“La nostra meta non era soltanto il paese di levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo, era l’unificazione di tutti i tempi”.

S.M.

Delta on-line

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