Unde malum? Dal "monstrum" al "mostruoso" nell'arte figurativa

Unde malum? Dal "monstrum" al "mostruoso" nell'arte figurativa

L’area semantica del termine “mostro” ingloba significati tra loro, se non contradditori, quanto meno eterogenei. Nel linguaggio corrente il vocabolo individua una presenza o entità che suscita spavento, orrore. Estensivamente, viene indicato come “mostruoso” ogni comportamento estremamente negativo, criminale, mentre la sua radice etimologica rimanda al termine latino “monstrum” che indica essenzialmente un segno divino, un prodigio da monere: avvisare, ammonire. Monstrum è l’apparire, il manifestarsi, il mostrarsi improvviso di qualcosa di straordinario, di divino, che, se viola la natura, è però anche un avvertimento, cioè un insegnamento dato all’uomo che sa ascoltare e comprendere le potenze del Sacro. Da qui, nell’universo spirituale latino, deriva la natura di presagio del monstrum, che suscita un senso di meraviglia e di stupore e può essere o fasto o nefasto, generando perciò rassicurazione o angoscia.

 


La difformità del monstrum implica in ogni caso una devianza radicale non tanto da una anonima medietà quanto da una idealità condivisa e nella quale una comunità si riconosceva, almeno come tensione, aspirazione. Da dove la pratica spartana di gettare dalla rupe i neonati imperfetti, pratica che si ritrova in molte società primitive, e che viene, con diverse forme, perpetuata anche in epoca romana. Apprendiamo da Tito Livio che i Romani bruciavano mostri umani e animali, e annegavano gli individui ermafroditi. La pratica di uccidere subito dopo la nascita le creature deformi che non morivano spontaneamente, continuò fino al XVII secolo, malgrado il passaggio dal politeismo pagano al monoteismo giudeocristiano avesse imposto un ripensamento teologico del nodo del ‘monstrum’. E tra i teologi cristiani un ruolo preminente, in argomento, ebbe la speculazione di sant’Agostino, la cui dottrina rimarrà un punto di riferimento per tutto il medioevo e sarà ripresa ancora nei secoli XVII e XVIII.
Sant’Agostino affronta la questione nel capitolo della Civitas Dei: “Se certe mostruose razze di uomini siano derivate dal gruppo di figli di Adamo ed Eva”. Secondo Agostino, come asserisce il Genesi, dopo il diluvio universale la Terra viene ripopolata dai tre figli di Noè. Ne consegue che anche le popolazioni e le razze mostruose di uomini devono discendere dal nostro unico comune progenitore Noè.
Per Agostino, se talvolta si assiste alla nascita di individui mostruosi, perché non si può pensare che in qualche modo si siano generate anche delle popolazioni mostruose? Dio potrebbe aver creato le razze mostruose proprio per testimoniarci che i parti mostruosi che si verificano di tanto in tanto, non sono degli errori di natura, ma fanno parte del disegno divino. Il “monstrum” cessa quindi di essere un segno, anche perché il manifestarsi secondo il canone della teologia pagana, diventa contraddittorio con l’idea giudeocristiana di un Dio infinitamente buono e onnipotente.
Non solo, il punto di approdo della teoria pagana del ‘monstrum’ è l’idea di metamorfosi, e quindi di continua instabilità e permutabilità delle forme, secondo una visione di tipo protodarwiniano, che contrasta e respinge l’idea biblica della creazione delle forme naturali come atto perfetto e definitivo.
Ma una tal idea di onnipotenza divina, guida al bene, apre la questione capitale: se non può venire da Dio, “unde malum?”, da dove viene il male?
Di più: come può Dio permetterne l’esistenza?
La risposta di sant’Agostino è: in natura, in quanto creazione divina, non esiste il male, che è una conseguenza del peccato dell’uomo. Ne consegue che i mostri non si devono interpretare come eventi contro natura, in quanto parte della creazione e della volontà divina infinitamente giusta e buona. La speculazione teologica cristiana prende possesso del mondo gradatamente, a lungo convivendo con relitti popolari di teologia pagana, che continuano ad agire, con effetti di singolare commistione.
Ed è questa commistione paradossale che permea e vivifica tutta la singolare iconologia dell’arte romanica e gotica, quel singolare popolo mostruoso di pietra che ci documentano le chiese della cristianità europea, e una cui geografia simbolica ci è stata ricostruita dalla magistrale analisi del grande storico dell’arte Baltrušaitis.

 

Il Medio Evo costruisce vere classificazioni del mostruoso, creando animali e genti e dislocandole in evi e luoghi geografici fantastici, creando testi e stratificazioni dottrinarie, discussioni e dibattiti, intorno a un universo fantastico creduto concretamente reale, a partire da eventi episodici, creando uno spazio fantastico fermamente creduto reale, che passa in eredità al rinascimentale, dove inizia una disanima razionalizzante.
Qui, in materia di mostri, uno degli autori più noti, siamo nel ‘500, è Fortunio Liceti, che si rifà ad Aristotele, rifiutando le interpretazioni profetiche alle quali contrappone un certo rigore sperimentale. Per tutto il ‘600 lo studio e la collezione dei mostri registra un grande successo, anche presso gli anatomisti, benché permanga ancora una forte confusione tra reale e favoloso. Il testo più celebre è la Mostruorum historia (1642) di Ulisse Aldrovandi, uscito postumo, in un’edizione ricca di bellissime illustrazioni a colori che spaziano dall’Homo pedibus adversis al monstrum acephalon con gli occhi e il naso sulla schiena, per continuare con una serie di draghi e di animali fantastici mescolati a casi di malformazioni. In quanto forma esplicativa del sacro, il linguaggio dell’arte non poteva non registrare e riflettere sulle forme mostruose in quanto portatrici di insegnamenti reconditi, cioè di significati simbolici da comprendere e fruire. I primi scrittori, poeti e storici, in parte pur essi mitici, ci raccontano difformità mitologiche che ci inducono a pensare che mostri doppi, polibrachi come il centinano Briareo, bicefali come Giano, monocoli come i Ciclopi ed il loro capo Polifemo, e i sirenoidi, e i giganti e i titani greci, come Eracle ed Anteo; e gli innumerevoli nani di ogni specie, come la divinità nana Bes del popolo egizio, e i nani architetti talmudici del popolo ebreo, siano stati uomini malformati – come tutt’ora, per errore genetico od acquisizione fenotipica, nascono o diventano – poi mitizzati e deificati in un lento processo di rimozione dall’umano.
Poiché il momento artistico è solitamente correlato a un’espressione metafisica o simbolica, le opere d’arte più antiche trovano nel mito e nella religione la propria ragione d’essere. Infatti, l’arte figurativa antica, e soprattutto per quanto scorgiamo dalla pittura funeraria etrusca, - dove sono gli archetipi sommersi dello stesso inferno dantesco a discendere da “Caron demonio” – si svela ricca di mostruose rappresentazioni di demoni e altre divinità infernali e sotterranee. Amuleti, statuette, monumenti funebri, monete, monili: le raffigurazioni mostruose si affacciano da ovunque. Le leggende dell’antico mondo dell’Ellade (si pensi ad Omero, ad Esiodo e poi a Luciano nel tardo ellenismo), le saghe di quello medioevale nordico e il parallelo ciclo di favole, che va dal mondo greco e romano per Fedro ed Esopo, ha i suoi esponenti illustri nella modernità in Rabelais, Perrault e Swift, e culmina nel romanticismo con le grandi raccolte di fiabe popolari, a partire dai fratelli Grimm.
Questi popoli difformi mitici raggiungono una loro suggestiva effervescente vita fantastica di mostri ottenuti per combinazioni di teste, grilli originati da divinità senza testa e con faccia sul tronco, geni multicefali, il cui apogeo viene raggiunto nei dipinti di Hieronymus Bosch. A uso degli artisti, ma anche come strumento di conoscenza dell’iconografia dei mostri, ricordiamo tutta una serie di opere in argomento, di vasta circolazione il ‘500 e il ‘600. Tra le più fortunate, le raccolte di Fortunio Liceti e Ulisse Aldrovandi. L’iconografia, che illustra sia mostri mitologici, favolosi e improbabili, sia casi di malformazioni genetiche, è tutta improntata ai modelli classici.
Le belle tavole iconografiche che accompagnano le opere sono quasi sempre di pura fantasia, in quanto gli illustratori spesso non avevano visto i soggetti che dipingevano, ma partivano dalle descrizioni dei viaggiatori o degli studiosi riproponendo modelli classici.

Anche quando avevano a disposizione degli esemplari, per esempio di feti mostruosi conservati, li raffiguravano non per quanto vedevano, in modo realistico, ma immaginando in modo fantasioso come avrebbero potuto essere da adulti.
Gli elementi bizzarri e favolosi, soprattutto legati alle decorazioni, agli stucchi, alle volute e alle cornici, che in parte riflettono la scoperta della pittura romana, si ritrovano nel ‘600 e nel ‘700 in opere barocche e rococò, fino al trionfo formale nell’arte neoclassica, dove i mostri, quando compaiono, ritornano ad essere trasparentemente ispirati ai temi mitici, soprattutto cavalli e leoni alati.
Nell’Ottocento l’arte, in particolare la pittura romantica, in polemica con il neoclassicismo e con la definizione di un ideale del bello, si propone di dare libero sfogo alla creazione individuale e all’emotività, in un progressivo radicalizzarsi dei temi, il cui approdo inevitabile diventa il prevalere di atmosfere cupe, angosciose, reagire alle quali in campo figurativo fu uno dei motivi psicologici del successo della pittura impressionista.
Il XX secolo si apre con l’”Urlo” di Munch: da questo momento nelle opere dell’arte figurativa affiora la “psiche”: i sensi rivendicano i ritmi di una conoscenza problematica e l’attenzione si sposta sull’incisività e sul moltiplicarsi delle emozioni. In contrasto con la corrente impressionista, l’espressionismo vuole dare della realtà una deformazione soggettivista, esprimendo attraverso la pittura la drammaticità della vita e i mostri della psiche, mentre tra i temi ricorrenti ritorna quello romantico della morte. Entrato in crisi il complessivo codice figurativo dell’arte, a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo la cultura neoromantica ha assediato l’umano pensiero in stretto riferimento con l’esistenza del singolo: coorti di diversi, disperati, malinconici, pessimisti testimoniano la trionfale presenza del “mal di vivere”, cercato anche nelle culture trascorse. Ricerca non difficile, perché, sin dalle origini della riflessione, l’uomo ha cercato di dare un senso alla vita, ma ogni progresso del pensiero lo ha reso più esigente, indebolendo le risposte di ordine sovrannaturale e rafforzando la consapevolezza della tragedia dell’esistenza. Questo malessere, pertanto, nato con la coscienza riflessiva, da stato patologico di poche coscienze, diventa progressivamente il prezzo da pagare della riflessione umana.
E proprio per questo, mai come nell’epoca contemporanea, l’individuo ha preso coscienza di non essere solo, ma di avere bisogno di aiuto nel momento stesso in cui un uguale aiuto può fornire agli altri.
Per questo percorso, all’antica nozione di sapienza e di conoscenza si sostituisce un nuovo principio di necessità vitale, insito nel fatto stesso di essere; quasi un vincolo indissolubile che tormenta ed illumina gli itinerari della vita.

La comunicazione dei sentimenti si sviluppa in maniera coinvolgente e cattura l’osservatore in un molteplice sviluppo allusivo: le figure che affiorano in primo piano, o nella lontananza della visione, testimoniano un comune destino d’estraneità e di profondo turbamento della psiche. Se i protagonisti dei ritratti, anonimi o riconoscibili, cercano di sfuggire al tentativo artistico di smascherare l’intimità dei sentimenti, i démoni e le visioni notturne si sviluppano in un groviglio inestricabile ed ammorbato, tra fantasie, pulsioni erotiche, soggettività sovraccariche di allarmi e presentimenti, soprattutto di morte, che minacciano di travolgere la fragile struttura razionale dell’essere, travolta nell’intreccio dei fenomeni complessi e spesso tra loro in radicale conflitto di un mondo dominato dal meccanismo dei cortocircuiti della globalizzazione dell’informazione. Il moltiplicarsi delle immagini fotografiche, cinematografiche, televisive, ingenera una sorta di delirio della visione attraverso un linguaggio che mette a nudo l’allucinante estraneità tragica dell’esistere umanizzato nella vita naturale.
Gli elementi della “scenografia” rappresentativa diventano protagonisti di una recita improbabile e di quella occultata violenza che affonda le radici nello spaesamento esistenziale. Si afferma dominante la convinzione che il manifestarsi del “principio della vita” nel mondo dell’informazione globale scateni, porti inevitabilmente a una assoluta frantumazione del soggetto, uno sbriciolamento dell’Io che, disgregandosi, partecipa, nell’angoscia e nell’ebbrezza, alla totalità del mondo. Mentre gli dèi hanno abbandonato il mondo, i miti riaffiorano entro forme di allarmanti pulsioni di morte. Proprio la morte, e l’angoscia che ne accompagna il fantasma sotteso alle cose, emerge come il significato profondo, indicibile, non raffigurabile ed occulto nella indefinitezza del mondo.
Orfano anche di se stesso, l’individuo, dopo essere stato ridotto a numero nei campi di sterminio nazisti e nel gulag stalinista, appare adesso sacrificato ai numeri altrettanto terrificanti dell’economia dei consumi, in una totale vittoria del “mostruoso”, diventato la medietá anonima consumista, il mondo ordinato nell’orrore da poteri del tutto estranei e sottratti all’umano, tra lo stato e i grandi cicli della produzione, con al centro la ricostruzione simbolica mostruosa del ciclo finanziario del denaro, propagandato dai mitologemi del risparmio e della democrazia di massa.
In conclusione, il linguaggio dell’arte può far capire, in questo nostro tempo, in cui si studia la patologia con metodi ogni giorno più sofisticati di minuta penetrazione analitica, come forse sia giusto che accanto a metodi di estrema e a volte forzata avanguardia, ci si avvalga pure, parallelamente, di questo metodo, col quale si percorre la via maestra della ricerca di testimonianze trasmesseci dagli artisti, dalle quali possiamo intendere i loro mali che, in ogni epoca, sono innanzitutto sofferti prima che capiti.
Già nel XVI secolo Paracelso, medico filosofo alchemico astrologo,
esortava i suoi allievi “a parlare di ciò che è invisibile”.

Naturalmente quello che è visibile deve appartenere alle conoscenze del medico, che dovrebbe riconoscere le malattie dai sintomi, ma questo lo può fare chiunque, anche se non è medico. Secondo Paracelso, il medico diventa tale solo quando sa quello che non ha nome, invisibile non materiale, che però ha i suoi effetti, quali i fattori invisibili che operano nelle malattie: le emozioni, i pensieri, la storia personale, i rapporti, le paure, i desideri e così via. Questa riflessione ci ricorda inoltre che l’arte, a differenza della vita, e più di essa, nel suo linguaggio universale, sa accogliere, con fraternità ed uguaglianza, non solo i belli, i forti, i vincenti; ma anche i brutti, i diseredati, i malati, i perdenti, come quelli rappresentati da Bruegel e Picasso, Van Gogh, Sismonda, Bosch e Redon, Munch e Otto Dix, dalle immagini dei quali ci giungono richiami di una stessa patria che si avvera quando il PATHOS nel suo significato più vasto e l’ETHOS nel più alto, si uniscono nel prodigio della creatività.

La grandezza dell’uomo, in fondo, sta anche nelle sue ferite.

 Liberamente tratto dall'archivio di Delta (M. A.)

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